Pan-Palazzo delle arti, Napoli
Incontro dal titolo "Perché il teatro?"
9 giugno 2010
La cultura non serve a consolare, ma a disturbare, a mettere in discussione: esordisce così Goffredo Fofi, nell’incontro dal titolo “Perché il teatro?” che lo vede protagonista assieme a Salvatore Tramacere, Davide Iodice e Emanuele Valenti.
Un intervento appassionato e al tempo stesso lucidissimo quello di Fofi, che getta lo sguardo all’ultimo trentennio della storia italiana (il periodo Craxi-Berlusconi), sottolineando come, di fronte a un lavoro che tende progressivamente a scarseggiare e a un tempo libero che invece cresce esponenzialmente, la cultura, e quindi il teatro, abbia assunto una pluralità di forme davvero smisurata.
Che uso abbiamo fatto della libertà di espressione artistica che il nostro tempo ci concede? Niente di buono, probabilmente, se la cultura tende a porsi sempre più come intrattenimento nel mare magnum di messaggi e immagini inutili che la macchina dei mass media ci lancia a ripetizione. Recuperare la necessità del fare teatro: ecco la ragione fonda che Fofi vede alla base di una seria e consapevole pratica artistica. “Le parole ingannano” dice citando Strindberg, tanto più che esistono parole che chi si occupa di teatro non dovrebbe mai usare: è il caso del termine “formazione” che per Fofi indica una volontà di ridurre l’individuo a una forma fissa (costituita da un uso sbagliato di tecniche e insegnamenti). Meglio parlare di educazione che, etimologicamente, rimanda alla capacità di tirare fuori da ognuno quanto di meglio e di unico ha da offrire, anche mediante un percorso che può essere complesso e doloroso.
E di educazione, così come Goffredo Fofi sembra intenderla, possono a buon diritto parlare gli altri tre relatori dell’incontro. Nessuno di essi è un maestro ma, forse, un ricercatore di incontri autentici, di relazioni umane, di compagni, come dice Iodice, con i quali affrontare una crisi che non è solo economica, ma anche dell’anima.
Ecco che, quindi, da questi interventi spiccano i momenti in cui, parlando dei propri progetti, i nostri protagonisti ricordano gli episodi che più li hanno coinvolti sul piano umano: dall’emozione di vedere un gruppo di giovani rom riunirsi con puntualità e professionalità per le prove di uno spettacolo (Trimacere), alla difficoltà di liberare i ragazzi di Scampia dalle logiche di competizione e prevaricazione provenienti dalla televisione (Valenti).
Il tutto nella consapevolezza che parlare di teatro sociale non ha senso, perché se il teatro non è sociale, allora non è nemmeno teatro.
Giulia Taddeo
venerdì 11 giugno 2010
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