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Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
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Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

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SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dms dell'Università di Bologna.

mercoledì 14 aprile 2010

Ci vuole qualcosa di più onesto per un inizio




INTERSCENARIO Pink,Me & the Roses

drammaturgia originale collettiva
di e con Anna Destefanis
Leonardo Mazzi
Benno Steinegger
Codice Ivan
25 marzo 2010, Teatri di Vita, Bologna


Perché andare a vedere “Pink, me and the roses”? Il titolo dello spettacolo appare accattivante, certo, mentre il nome della compagnia, battezzatasi Codice Ivan, lascia presagire una certa ironia da parte dei suoi componenti. La verità è che, sulla carta, la ragione per assistere a questo spettacolo è il fatto che si tratta del vincitore del prestigioso Premio Scenario. Allora ci si siede in poltrona con le migliori intenzioni e ci si concentra su ogni elemento scenico, ogni variazione di luce, ogni sospiro degli attori, per apprezzarli e per verificare le ragioni di un successo come quello appena menzionato.
La rapida sequenza iniziale ha una certa potenza visiva: sullo sfondo di una scena bianca, vuota e asettica come un laboratorio, Benno Steinegger, un coltello stretto fra i denti, fa scoppiare un palloncino che pende dal soffitto, coperto da una lunga parrucca bianca. A seguire le sue mosse, seduto davanti a un tavolaccio di legno grezzo con sopra un vaso di fiori finti, un mixer audio e un laptop (da cui si faranno partire una serie di tracce sonore nel corso dello spettacolo) c’è Leonardo Mazzi; quest’ultimo, forse, interpreta se stesso, vale a dire un tecnico che riflette costantemente sull’andamento della performance.
Eppure, dopo la rumorosa esplosione di questo cranio gonfiabile, lo spettacolo inizia ad avvilupparsi in una serie di azioni staccate, frammentate, reiterate e giustapposte fra loro senza una connessione apparente: si tratta di scene che ruotano attorno a pochi oggetti, come gli occhialoni realizzati con due piatti di carta indossati da Benno, il muletto che serve a trasportare Anna Destefanis (terza componente del gruppo) seduta su una poltrona, le scarpe gialle col tacco che l’attrice non fa che calzare e togliere in continuazione. E così, dopo una serie di sequenze sconnesse, dopo canzoni cantate prima in play back e poi, con gli stessi gesti d’accompagnamento, senza musica, ci rendiamo conto che gli attori si stanno interrogando su come dar inizio allo spettacolo (ancora?).
Ecco che, dunque, capiamo qual è l’operazione di fondo: una riflessione metateatrale sull’impossibilità del teatro stesso, o comunque sulle sue intrinseche contraddizioni.
D’ora in poi la dinamica di questo esperimento metateatrale sarà di tipo metaforico, o meglio allegorico: le azioni compiute dagli attori, infatti, corrisponderanno, come delle allegorie, alle problematiche che lo spettacolo intende (senza riuscirci) sviscerare, o comunque trattare con originalità.
Seguendo quindi la logica dell’allegoria non possiamo non procedere per associazioni: la sequenza straniata in cui Anna traduce in inglese, senza capirla, la dichiarazione d’amore che Benno sembra volerle rivolgere (in italiano), ci fa pensare alla difficoltà di comunicare senza rimanere imbrigliati nei codici utilizzati; l’evocazione dell’atto masturbatorio da compiere in scena rimanda al fatto che l’attore tira fuori qualcosa di estremamente intimo (e questo accade sempre, senza bisogno di masturbarsi in scena!); la favola dello scorpione e della rana, poi, interpretata con ironia (uno dei pochi momenti divertenti dello spettacolo), è la più evidente metafora del rischio del fatto teatrale.
La riflessione sul teatro, però, si radicalizza col progredire dello spettacolo perché, man mano che iniziano a parlare dell’impossibilità di comunicare realmente col pubblico, gli interpreti smettono completamente di “agire”: all’azione, infatti, si sostituisce un interminabile vaniloquio circa il fatto (per nulla nuovo, in verità) che in scena l’attore non vive mai totalmente l’azione, che il contatto con lo spettatore è quasi irraggiungibile, ecc…
Quelle cui si fa riferimento in “Pink, me and the roses” sono contraddizioni che fanno parte dell’essenza del teatro, il quale, per rimanere vivo, ha forse proprio bisogno di metterle in evidenza e di porsi in maniera attenta e problematica nei loro confronti: ma il rifiuto dell’azione che Codice Ivan ci ha offerto in questa sua opera prima può essere una soluzione possibile? Non sarà più opportuno continuare a fare teatro pur logorandone le forme dall’interno?
Le sequenze più riuscite, non a caso, sono quelle in cui si “fa” realmente qualcosa: la prima è quella in cui gli attori si ritagliano un momento privato di realtà quando, sotto le note di una musica ad alto volume, parlano fra loro senza che noi possiamo ascoltarli (il tutto con un gusto fortemente cinematografico).
L’altra è rappresentata dal momento in cui Anna sale in piedi sull’orlo dello schienale della poltrona e si getta a terra, mentre la voce registrata dice “in fondo anche la Duse aveva una tecnica”.
Eccola finalmente: un’azione drammatica subito negata.
Giulia Taddeo

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