CHI SIAMO

Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
recensioni, reazioni.

Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

WEB Elena Cirioni

SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dms dell'Università di Bologna.

mercoledì 28 aprile 2010

Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore




La menzogna di Pippo Delbono


“La menzogna” non è solo il titolo dell’ultimo spettacolo di Pippo Delbono. Non è neanche il suo soggetto, dato che lo spunto tematico di partenza è un fatto di attualità, vale a dire l’incendio in cui, nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007, morirono sette operai della Thyssen Krupp. La menzogna è un personaggio dal volto multiforme: ognuno di noi può incarnarla, nel momento in cui ci illudiamo di soffrire per morti che non conosciamo e per i quali proviamo solo pietà; ma, più di tutto, la menzogna vive nei festini a luci rosse dei padroni che, tra frustini, sigarette e corpetti in lattice, sono i motori di quel sistema economico che da un lato brucia vivi gli operai della Thyssen, e, dall’altro, celebra le sue conquiste in video pubblicitari (proprio quelli della Thyssen) in cui ci si chiede “What’s the future?” con la certezza di essere i protagonisti trionfanti di quel futuro su cui si finge di interrogarsi.
Lo spettacolo si pone di fronte a tali questioni come un urlo incontenibile proprio perché, ci dice Delbono, è ora di smetterla di “darsi un contegno”, è ora di spogliarsi dalle ipocrisie del qualunquismo e del politicamente corretto. Urlare contro, dunque: è Pippo, demiurgo dell’azione, che dalla platea ci fa rabbrividire quando grida nel microfono le parole “bruciati vivi”, e che in scena, indossati i panni di un padrino con tanto di brillantina sui capelli, mette il microfono davanti alla bocca dei propri compari in vesti sadomaso, i quali, però, non possono che emettere versi animali.
Il carattere diffuso e penetrante della menzogna viene fuori anche dalla struttura complessiva dell’azione scenica: due grosse sequenze che ci appaiono come le due facce di una stessa medaglia, e che, anche da un punto di vista formale, risultano essere del tutto agli antipodi. Dapprima, in silenzio e con la sola illuminazione di una luce al neon, un gruppo di operai, alla spicciolata, raggiunge il proprio armadietto, indossa la tuta da lavoro, e, lentamente, sparisce in una porta scura sul fondo, che li inghiotte come una voragine. E’ una mattina qualunque, il buio è quello di sempre, forse nemmeno i pensieri degli operai (che non parlano fra loro) sono diversi dal solito. A questo primo momento fa da contrappunto il già citato festino sadomaso, caotico, urlato, eccessivo nelle danze assurde e negli spogliarelli dei partecipanti.
Basta, ci vuole una pausa. E’ il momento dei non-attori della compagnia, delle star: ecco l’ex barbone Nelson che si finge un esperto d’arte e, soprattutto, è il momento della sfilata di Bobò (50 anni passati in manicomio, sordomuto e analfabeta) che saluta e lancia baci al pubblico. Ma si tratta di un preludio: questi corpi, quello di Nelson come quello di Bobò, con una storia e una verità che vanno oltre il momento rappresentativo, ci conducono, distraendoci, all’ecatombe finale. Perché di un’ecatombe da tragedia si tratta: se all’inizio, infatti, si denunciava la pietà (elemento strutturale del meccanismo tragico) come sentimento consolatorio e fallace, in questo finale essa assume un’intensità tale da tradursi in sgomento. Non si può provare altro di fronte alla sfilata degli attori che, come tante pietà (scultoree stavolta) in movimento, portano in braccio i corpi esanimi dei propri compagni. Li adagiano al suolo: anche questi corpi portano un’autenticità che non possiamo non vedere e che abbaglia soprattutto quando essi sono completamente nudi; la stessa nudità di Delbono solo in proscenio che, poco dopo, fa l’atto di spogliarsi “della menzogna che si porta dentro”. Ma soprattutto è la nudità di Bobò: non ha bisogno di essere nudo per trafiggerci come una lama quando, con malinconia incosciente, apre uno alla volta gli armadietti degli operai, ormai vuoti.
Giulia Taddeo

lunedì 26 aprile 2010

La giostra della menzogna




La menzogna di Pippo Delbono

Ingresso del pubblico. Il pubblico si siede e aspetta. Tutto il pubblico è seduto e aspetta, le luci preannunciano l’inizio dello spettacolo, ultimi bisbigli, il pubblico aspetta .
Silenzio. Non accade nulla. I minuti scorrono e trasformano un semplice passaggio, ingresso pubblico-inizio spettacolo, in una condizione di imbarazzante angoscia in cui al silenzio della sala si sostituisce la tosse, unica reazione involontaria che supplisce la mancata abitudine di guardare.
Così inizia “La menzogna” di Pippo Delbono, in scena all’ Arena del Sole di Bologna il 21 e 22 aprile.
Scale, impalcature, ringhiere, armadietti di ferro restituiscono l’immagine di una fabbrica: l’acciaieria di Torino ThyssenKrupp, dove nel dicembre 2007 un incendio provocava la morte di sette operai.
Delbono, protagonista assoluto della scena, entra con totale disinvoltura e prende posto in platea. Non curante del disagio invisibile che ha pervaso la sala, trova in questo ritardo il pretesto per osannare e dissacrare la bella liceità dell’Italia: “in Italia tutto è concesso tranne droghe e culattoni”.
Partendo dal fenomeno delle morti bianche, il regista demiurgo vuole mettere a nudo le menzogne dei nostri tempi; ci porta all’interno di un viaggio a ritroso, in una regressione che dal tempo attuale approda all’infanzia; dal sociale arriva all’individuo, a se stesso.
Ogni condizione umana è generatrice di menzogna: dagli operai che entrano silenti nei loro spogliatoi “per costruire un futuro migliore con ThyssenKroup”, alle bestie sadomaso che trasformano la fabbrica in un bordello, la menzogna è nei loro corpi che si esibiscono senza vergogna che Delbono, con animo perverso, fotografa, segue e ne illumina le parti con tanto di lampadine tascabili.
La menzogna di prelati e cardinali che con ieraticità assolvono i peccati delle loro penitenti chiudendole in armadietti-bare è denudata dalla loro urla che rompono quella compostezza; latrati feroci rivelano multiple nature in loro, le loro ulcere emotive debordano dalle bocche; penitenza e rabbia procedono sullo stesso binario.
La morte giace sul proscenio, è un corpo che non ha più nulla da chiedere, come dilaniato da frecce di un cavaliere medievale che sferza colpi e atterra la dignità del mondo, è fame, peste, aids, guerra, morti bianche.
La nudità dei corpi in scena non veicola sempre la stessa condizione dell’essere umano; Gianluca è portatore di una serpe e di un fiore: la sua serpe lo esibisce nudo con lunghe collane di perle e movenze seduttive, il suo fiore lo rende libero di scorazzare nudo senza oscenità.
Lo spettacolo procede non per dialoghi ma per visioni che si trasformano una dentro l’altra, l’incendio della fabbrica arriva attraverso immagini frenetiche di corpi contorti che danzano la loro morte su “Le Sacre du printemps” di Stravinskij. Il regista segna i tempi della scena e si trasforma in essi: presentatore cinico, infame guardone, bestia feroce lui come tutti.
Attraverso un percorso inverso, il regista ricostruisce un frammento della sua infanzia, si denuda dentro e fuori; la sua prima menzogna fa capo lì, al suo corpo di bambino che sente e nasconde pulsioni omosessuali, con una mano che cerca la carne del suo corpo e un pugno chiuso che vuole nascondere insieme al pollice anche se stesso.
“Rinnega il tuo nome” implora fino all’esasperazione Giulietta al suo Romeo; con pochi frammenti estrapolati da Shakespeare anche il regista implora a prendersi la responsabilità della propria identità, oltre un nome che contraddistingue soltanto per genere, razza, cognome, sesso, portatore di falsificazione e diffidenza.
Gli eventi della vita sembrano succedersi, attraversare una ciclicità temporale e allo scadere dei secoli riproporsi, da Shekespeare a Dante, alle sue invettive contro l’Italia a Delbono al nostro tempo, uguale a ieri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,nave sanza nocchiere in gran tempesta non donna di province, ma bordello!”
Ilaria Bella Palermo

giovedì 22 aprile 2010

La terza vita di Leo






Conversazione con Laura Mariani

Intervistiamo Laura Mariani sul libro di Claudio Meldolesi “La terza vita di Leo. Gli ultimi vent’anni del teatro di Leo de Berardinis a Bologna”, (Tivillus, Corazzano 2010) del quale è coautrice insieme a Angela Malfitano.


Ripercorriamo le fasi di creazione del libro…

Questo libro nasce da due convegni che sono stati organizzati al DAMS di Bologna l’uno nel maggio del 2007, l’altro nel maggio del 2008. Due convegni molto particolari perché riunivano moltissimi attori, artisti e studiosi che avevano lavorato o collaborato con Leo de Berardinis o lo avevano conosciuto da vicino. Claudio Meldolesi, che li ha ideati e organizzati, ha avuto al suo fianco Angela Malfitano, un’attrice che ha avuto un’esperienza lavorativa con Leo (e che si è laureata con Claudio), e in parte anche me. Dico in parte perché ufficialmente lavoravo ancora all’università di Cassino. Sono subentrata compiutamente nella fase di costruzione del volume, che è stata molto faticosa, come si capisce dal titolo stesso, dato che ci sono moltissimi testimoni e un’apparato iconografico in parte inedito, e dal fatto che il libro non voleva essere semplicemente una raccolta di testimonianze.
E’ un libro corale, vi si possono ascoltare tante voci che parlano di Leo e della sua arte, ma è anche un libro fortemente d’autore perché c’è l’impronta evidentissima di Claudio Meldolesi.

Che genere di rapporto legava Claudio Meldolesi e Leo?


Claudio, e anch’io, abbiamo avuto un’amicizia con Leo profonda, ma Claudio ha poi avuto con lui un rapporto di collaborazione molto più determinante e Leo ha sentito Claudio molto vicino a sé. In numerose occasioni si sono confrontati e hanno collaborato: se Claudio invitava Leo ai seminari qui all’università, Leo invitava Claudio a seguire il suo lavoro con gli attori,durante le prove e non solo. E Claudio si attivò perché venisse concessa a Leo la laurea honoris causa.

Poi c’è stata la malattia di Leo…

C’era questo rapporto molto stretto e quando Leo ha subito l’operazione chirurgica che l’ha ridotto in stato di coma, Claudio si è fatto un punto d’onore di ricordare in tutte le situazioni pubbliche in cui interveniva la condizione di Leo. Il destino tragico di questo artista e uomo straordinario in qualche modo sembrava rievocare la fine tragica, una sorta di maledizione, di tanti comici del ‘700 e dell’800. Claudio provava per Leo affetto, stima, ma, soprattutto, riconosceva quanto gli aveva dato come artista e come intellettuale. Per lui, nonostante la differenza d’età fosse minima, Leo era un maestro a tutto tondo: non solo perché Claudio stesso avrebbe voluto fare l’attore (cosa che non ha fatto ma che ha segnato profondamente il suo modo di scrivere di teatro), ma anche perché Leo era un “uomo-teatro”, cioè un artista e intellettuale con una forte vocazione pedagogica, attivo scenicamente a tutti i livelli.

La frequentazione con Leo è stata dunque determinante…

Dopo il libro di Gianni Manzella, che, essendo nato da un rapporto molto stretto con Leo de Berardinis, offriva una forte presenza di Leo stesso, Claudio non pensava di scrivere su di lui, nonostante avesse fatto più volte interventi in convegni dedicati a Leo come artista, al suo unire alto e basso, tragico e comico, tendendo all’unificazione dei teatri. Anche per Claudio, infatti, era importante che si parlasse di teatro buono o teatro cattivo, ed erano secondarie le differenze fra tradizione, ricerca, terzo teatro, avanguardia... Leo era un artista a tutto campo, innovatore, sperimentatore, ma interessato anche alla tradizione e per questo tendente all’unificazione dei teatri.

I convegni del 2007 e 2008 miravano già alla stesura di un libro allora…


Questi due convegni nascono proprio con il titolo “Per un libro su Leo a Bologna” (il libro di Manzella, del resto, è del 1993). Claudio riteneva molto importante scrivere di quest’ultima fase dell’esperienza artistica di Leo. A differenza di molti critici e storici del teatro, che pensavano che il Leo grande fosse solo quello della prima fase, riteneva che il Leo bolognese fosse pure estremamente interessante: per il suo impegno pedagogico, perché si era avvicinato in modo nuovo anche alla grande drammaturgia, per il suo aspetto di maestro che lottava per un teatro senza settarismi, per la sua ricerca della forma ...

L’idea dell’unificazione dei teatri forse costituisce un ponte fra la stagione bolognese di Leo e le sue prime esperienze artistiche…


Certo. Diciamo anche che questo libro viene da lontano, da questo rapporto di Claudio e Leo molto stretto, per cui si chiamavano scherzosamente maestro l’un l’altro, ma, rispetto ai convegni e agli eventi che si sono succeduti tra il 2008 e il 2009, esce anche con una certa tempestività.

A Bologna, quindi, Leo ha svolto una grande attività pedagogica…

Leo ha creato una compagnia di giovani artisti costituita da persone originali: da un lato vicine al suo modo di vedere il teatro e, dall’altro, anche capaci di fare resistenza, tanto che, a partire da questo rapporto con lui, hanno sviluppato dei percorsi autonomi: parlo innanzitutto dei suoi attori storici – Elena Bucci, Francesca Mazza, Gino Paccagnella e Marco Sgrosso –, ma penso anche a tanti altri che poi lo hanno via via affiancato. E molti sono gli artisti che, più o meno direttamente, si dichiarano debitori di Leo in questo libro: Toni Servillo, Mario Martone, Marco Martinelli… Si vede inoltre che Leo, sia per l’attività pedagogica che per quella politica, ha creato a Bologna molti momenti organizzati in cui si sono sviluppate relazioni significative. Pensiamo a quando invitò al San Leonardo Sanjukta Panigrahi, una danzatrice indiana che lavorava con Barba. Per Leo il teatro veniva al primo posto, ma anche le relazioni umane. Ci furono forti momenti di confronto, anche di carattere politico, sulla condizione del teatro e dell’attore oggi.

Perche Leo è un protagonista “imprevisto” del teatro contemporaneo?

Io posso dare la mia spiegazione perché, come dicevo, questo è un libro fortemente d’autore: Claudio non solo ha pensato i due convegni ma ha scritto le introduzioni alle varie parti del libro, creando un filo rosso che attraversa tutto il testo. La definizione di imprevisto si lega al fatto che Meldolesi, per spiegare la grandezza di Leo, ricorre anche ad “alte parentele artistiche” con Artaud e la Duse, cosa che pone oggettivamente Leo su un altro livello. Non ci saremmo aspettati di parlare di Leo insieme a quei Maestri. Imprevisto, dunque, perché protagonista a un livello che non prevedevamo.
Giulia Taddeo

mercoledì 21 aprile 2010

Oltre il muro di carta



INTERSCENARIO
Kish Kush
Regia di Laura Marchigiani
Con Alessandro Nosotti Daniel Gol
Teatrodistinto



All’inizio sembra di assistere a due spettacoli differenti: il palco, sul quale vengono accolti i piccoli spettatori, è diviso in due da una diagonale, un telo bianco a segnare lo spazio dell’alterità. Da un lato un omino vestito di bianco - Daniele Gol - gioca con una sottile e impalpabile sabbia, dall’altro lato uno spilungone tutto gambe - Alessandro Nosotti - anche lui in bianco, si trastulla con delle arance. Sul telo si contorce rispettivamente l’ ombra dispettosa dell’altro personaggio: ognuno dei due protagonisti è incuriosito dal profilo che si muove accanto a lui, l’ansia di conoscere ciò che non si vede bene diventa presto desiderio di scoperta. L’apparente atmosfera di surrealtà donataci dal bianco e dai primi minuti di silenzio è interrotta dallo squarciarsi del muro di carta: ecco prendere inizio la storia di un incontro.
E’ un incontro come tanti, come i migliaia e milioni di incontri tra bambini, uomini, donne, che oggi come ieri, si spostano dal proprio paese e incontrano chi è diverso da loro. E’ un incontro come tanti, come le migliaia e milioni di incontri di chi, al sicuro nel proprio paese, nella propria casa, tra le proprie cose, con la propria stabilità, viene a contatto con chi arriva da lontano ed è diverso.
I due protagonisti si guardano sospettosi, si annusano, si odorano. Si parlano e non si capiscono. Uno parla italiano, l’altro ebraico. Ognuno cerca di definire il proprio spazio, di difendere la propria casa, cerca di farsi capire usando pennello e colori. Ed ecco venir fuori sull’enorme spazio bianco ai loro piedi un grande Kish-Kush. Uno scarabocchio, in lingua ebraica. Un pasticcio di linee, di case stilizzate, di equivoci tra il mio e il tuo, tra il questo e quello, un miscuglio di lingue e di sapori, di arance e di semi di zucca. Un miscuglio che alla fine, superate le paure, le perplessità, può diventare un miscuglio meraviglioso. Vivevo solo in uno spazio tutto mio e poi è venuto fuori un pasticcio, uno scarabocchio - ma basta una maschera dipinta per scimmiottarsi a vicenda e un lungo nastro bianco, memoria di un muro che adesso non è più invalicabile, per tendersi la mano a vicenda e gridare shalom.Dopo Un paese di stelle e sorrisi della compagnia Mosika, torna nella programmazione di Interscenario:le generazioni del nuovo, il temo del diverso, dello straniero. Qui il tema è trattato con estrema essenzialità, con un intreccio narrativo molto semplice, e raggiunge con efficacia, grazie al gioco sulle azioni quotidiane, sugli oggetti e sul corpo dei due performer, anche un pubblico di bambini molto piccoli.
Maria Claudia Trovato

L'altro da noi che viene aldilà del mare






Incontro con Loredana Putignani




“Loredana Putignani, diplomata all'Accademia di Belle Arti e al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, ha iniziato l'esperienza di ricerca teatrale con il Living Theatre. Ha collaborato con il Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller dagli inizi degli anni Ottanta, proseguendo poi con Teatri Uniti, sino al 2000. Ha lavorato con Leo de Berardinis, creato spettacoli e diverse installazioni. Ha diretto i "gemelli" di Tadeusz Kantor ideando uno spettacolo su Samuel Beckett, Terremare. Nel ’95 realizza uno spettacolo con un gruppo di Rom, Rom-Stalker, partecipando a vari festival come il Mittelfest e il Multicultural Theatre in Europe al Cosmic Theatre di Amsterdam. Occupandosi di "migrazioni", ha realizzato diversi laboratori, video e spettacoli su Africa e Islam, come La Porta dell'Ascolto, presentato nella rassegna “Petrolio” del Teatro Mercadante di Napoli. Nella collaborazione attiva con Mario Martone, oltre a film e spettacoli, dai Persiani agli Edipi al Don Giovanni, ha curato video-installazioni, convegni, pubblicazioni e trasmissioni intorno all'opera di Antonio Neiwiller”.
Inizia così l’incontro con Loredana Putignani, tenutosi il 15 aprile scorso presso l’Auditorium dei Laboratori Dms all’interno del programma della Soffitta.
A coordinare è Laura Mariani che apre il discorso parlando proprio della biografia dell’attrice, sottolineando come le esperienze personali abbiano avuto molta importanza nello sviluppo della ricerca portata avanti in tutti questi anni.
Fondamentale è stato per lei il rapporto che l’ha tenuta legata, così nella vita come nell’arte, al grande artefice e maestro Antonio Neiwiller. Un legame che, come ha tenuto a precisare Laura Mariani, non è stato “un rapporto tra l’artista e la sua musa, ma qualcosa che ha a che fare con la natura relazionale del fare teatro”.
Leggendo alcuni stralci di uno scritto inedito di Claudio Meldolesi, la Mariani sottolinea l’importanza del lavoro di questa donna di teatro, assolutamente non secondario rispetto a quello Neiwiller. Meldolesi a suo tempo ha utilizzato le stesse parole sia per Loredana che per lui, definendoli entrambi “donatori di scintille”. E continuando a citare Meldolesi: “Loredana Putignani, cresciuta nell’arte a Napoli come altrove, è artefice di una rara capacità di incantamento per il mondo, (…) che si rifà soprattutto a quello popolare, più predisposto a drammatizzarsi. Se non fosse stato così, non avrebbe potuto cantare ai suoi poveri”.
Loredana Putignani interviene parlando del suo bisogno d’arte che la spinge sin da piccola a creare manufatti, marionette e teatrini col fine di cercare nel teatro quel qualcosa che ci può permettere di comunicare. Ammette che sia difficile per lei definire il suo ruolo e quando Neiwiller è venuto a mancare lei ha reagito in maniera molto forte, “non facendo morire nella commemorazione la persona con cui si è condivisa la vita e l’arte, ma portando tutto al presente facendo qualcosa di Antonio che appartiene anche a lei”.
Il suo obiettivo, come quello di Neiwiller, è sempre stato far entrare in scena la vita, aprire il teatro a essa ricercando il silenzio.
Loredana racconta che Neiwiller costruiva la scena creando spazi con più dimensioni, aldilà delle parole, perché le parole a volte mentono, inserendo solo alla fine attori-non attori.
E’ così che nasce la formazione di Putignani, che ha avuto grandi maestri, partendo da ciò che il teatro non è e da ciò che è fuori dal teatro, concentrandosi sulla sua forza visuale e fisica, fatta di corpi e azioni. Un amore per lo spazio teatrale che però viene costantemente tradito e che trova piena aderenza alla vita che può permettere di “vivere l’altra parte di sé - l’altro sesso oltre noi”, come insegnava Leo.
Non più ruoli, ma stati di coscienza, capaci di mettere in connessione il performer con il pubblico attraverso la forza evocativa delle azioni.
Laura Mariani definisce il suo teatro “spazio antropologico e spazio come ventre”, da cui far germogliare il seme che è dentro di noi, portandolo alla luce e condividendolo, dandogli vita e forma, partendo dalla realtà stessa.
La Putignani risponde che è il suo estremo bisogno di verità a portarla alla ricerca di qualcos’altro, di qualcosa di primario. Così decide di dedicarsi a ciò che è considerato erroneamente “diverso”, ma che è semplicemente altro da noi. Per tutte queste ragioni si dedica a una “realtà sotterranea” vivendo e lavorando in un campo Rom, dedicandosi a un progetto durato tre anni con donne nigeriane, sempre “alla ricerca delle radici e a una solidarietà non paternalistica”, come precisa Laura Mariani alla quale la Putignani risponde sottolineando come i mass media e la televisione in particolar modo, ci abbiano abituato all’orrore della modernità e del capitalismo, all’“altro come corpo-mente che soffre”.
L’incontro è stato arricchito di domande rivolte dalla curatrice dell’evento e dalle risposte illuminanti dell’artista. Subito dopo le purtroppo poche persone presenti hanno potuto visionare il documentario che raccoglie l’esperienza di “Madri Migranti”, il lavoro svolto con donne nigeriane, dove si ripercorrono le tappe di un viaggio teatrale e umano, che mette in evidenza l’interazione con le pulsioni sociali da cui ognuno di noi dovrebbe attingere risorse per imparare a vivere e convivere con ciò che la cultura occidentale definisce “diverso”. Al termine, Loredana Putignani esprime la sua gratitudine nei confronti di tutti coloro che attraverso queste esperienze le hanno insegnato tanto, dicendo che non ama parlare di loro come di extracomunitari, ma di “altro da noi che viene aldilà del mare”.
Elina Nanna

L'uomo che vedeva gli angeli



Angels in America di Toni Kusher, Teatridithalia


Da tempo recensire uno spettacolo teatrale non coincide con l’analizzare il testo letterario oggetto della messa in scena. Eppure, nel caso di Angels in America. Parte prima, per la regia di Elio De Capitani e Fernando Bruni, sembra proprio la genialità del testo a garantire gran parte della riuscita dello spettacolo stesso. L’autore è l’americano Tony Kusher, l’anno il 1993: un successo degno del premio Pulitzer.
La vicenda ci sembra un intreccio di destini paralleli: Prior, malato di Aids, è abbandonato dal compagno Louis il quale si innamora di Joe, giovane avvocato mormone e omosessuale; quest’ultimo ha represso la propria sessualità sposando una donna, Harper, che, dopo il matrimonio, ha iniziato a fare un uso smodato di psicofarmaci.
A essi si aggiunge Roy Cohn, avvocato corrotto e malato anch’egli di Aids, ma incapace di ammettere la propria omosessualità: è lui a incarnare lo spirito del proprio tempo, almeno così come Kusher intendeva rappresentarlo. Unico personaggio realmente esistito (avvocato maccartista responsabile della condanna a morte dei coniugi Rosemberg, ingiustamente accusati di cospirazione nel 1953), contribuisce a restituirci l’immagine di un’America infetta dall’Aids che, come una peste, pervade ogni livello sociale.
La malattia mette alla prova i personaggi, misurandone lo spessore morale. Ecco che allora Prior sembra quasi un profeta martire: è lui che vede gli angeli, cioè guarda con chiarezza il proprio tempo e le sue insidie, senza rinunciare mai alla propria umanità.
L’America del 1985 (anno della vicenda) è, come quella di oggi, una società in cui guardare oltre le apparenze si rivela quanto mai necessario: in questo senso i registi sentono l’attualità del testo di Kusher, perché, oggi più di ieri, le sorti delle nazioni sono profondamente intrecciate e ci si trova a vivere nell’ambito di regimi fintamente liberali, perché, in realtà, omofobi fino ai più alti livelli.
Sono forse due gli elementi che rendono incisivo uno spettacolo di più di tre ore: da un lato l’orchestrazione “musicale” dell’azione (una “fantasia” strutturata in duetti, terzetti, arie e variazioni); dall’altro la qualità degli attori, che ci regalano un’interpretazione “di pancia”, da cui emergono momenti di densa sensibilità.
Lo spazio scenico ospita bene la struttura musicale cui si è accennato: esso consiste in una scena bianca di finti mattoni in cui le luci isolano di volta in volta le porzioni di spazio dove agiscono gli attori; pochi gli oggetti: i materassi, la coperta rossa sul letto dei due ammalati, fino al frigorifero con vetrata sul retro da cui si affaccia Harper nelle sue allucinazioni e attraverso il quale si accede al regno dell’immaginazione.
L’immaginario determina il sapore dello spettacolo nel suo insieme ed emerge attraverso espedienti di carattere cinematografico: le proiezioni, la scena dei sogni in comune (con Prior, in vesti femminili, e Harper, accomunati dal desiderio di fuggire dalla realtà), fino all’apparizione conclusiva dell’angelo con tanto di crollo di muri; un momento, ci dice Prior, “molto Steven Spielberg”.
Eppure, quello che davvero ci rimane di questo spettacolo lungo, ricco e che strizza l’occhio al kitsch è la volontà di recuperare l’umano, anche attraverso gli aspetti più bassi della malattia: non a caso i momenti più teneri, ma anche più disperati, vedono il confronto fra Prior e Belize (ex amante di Prior) i quali, quasi a scongiurare la paura della morte, non smettono di ricorrere allo sberleffo, al sarcasmo e all’ironia “camp”. Ma la vera forza di questi momenti sono i due attori, Edoardo Ribatto e Fabrizio Matteini (i migliori), perfetti nel rendere la sensibilità più autentica al di là della dissacrazione.
Un maggiore cinismo ci si sarebbe potuti aspettare dal pur bravo Cristian Maria Gianmarini (Joe): l’impressione è quella di una reticenza ad andare al fondo dell’ amoralità che spesso caratterizza nettamente questo personaggio.
Giulia Taddeo

mercoledì 14 aprile 2010

Ci vuole qualcosa di più onesto per un inizio




INTERSCENARIO Pink,Me & the Roses

drammaturgia originale collettiva
di e con Anna Destefanis
Leonardo Mazzi
Benno Steinegger
Codice Ivan
25 marzo 2010, Teatri di Vita, Bologna


Perché andare a vedere “Pink, me and the roses”? Il titolo dello spettacolo appare accattivante, certo, mentre il nome della compagnia, battezzatasi Codice Ivan, lascia presagire una certa ironia da parte dei suoi componenti. La verità è che, sulla carta, la ragione per assistere a questo spettacolo è il fatto che si tratta del vincitore del prestigioso Premio Scenario. Allora ci si siede in poltrona con le migliori intenzioni e ci si concentra su ogni elemento scenico, ogni variazione di luce, ogni sospiro degli attori, per apprezzarli e per verificare le ragioni di un successo come quello appena menzionato.
La rapida sequenza iniziale ha una certa potenza visiva: sullo sfondo di una scena bianca, vuota e asettica come un laboratorio, Benno Steinegger, un coltello stretto fra i denti, fa scoppiare un palloncino che pende dal soffitto, coperto da una lunga parrucca bianca. A seguire le sue mosse, seduto davanti a un tavolaccio di legno grezzo con sopra un vaso di fiori finti, un mixer audio e un laptop (da cui si faranno partire una serie di tracce sonore nel corso dello spettacolo) c’è Leonardo Mazzi; quest’ultimo, forse, interpreta se stesso, vale a dire un tecnico che riflette costantemente sull’andamento della performance.
Eppure, dopo la rumorosa esplosione di questo cranio gonfiabile, lo spettacolo inizia ad avvilupparsi in una serie di azioni staccate, frammentate, reiterate e giustapposte fra loro senza una connessione apparente: si tratta di scene che ruotano attorno a pochi oggetti, come gli occhialoni realizzati con due piatti di carta indossati da Benno, il muletto che serve a trasportare Anna Destefanis (terza componente del gruppo) seduta su una poltrona, le scarpe gialle col tacco che l’attrice non fa che calzare e togliere in continuazione. E così, dopo una serie di sequenze sconnesse, dopo canzoni cantate prima in play back e poi, con gli stessi gesti d’accompagnamento, senza musica, ci rendiamo conto che gli attori si stanno interrogando su come dar inizio allo spettacolo (ancora?).
Ecco che, dunque, capiamo qual è l’operazione di fondo: una riflessione metateatrale sull’impossibilità del teatro stesso, o comunque sulle sue intrinseche contraddizioni.
D’ora in poi la dinamica di questo esperimento metateatrale sarà di tipo metaforico, o meglio allegorico: le azioni compiute dagli attori, infatti, corrisponderanno, come delle allegorie, alle problematiche che lo spettacolo intende (senza riuscirci) sviscerare, o comunque trattare con originalità.
Seguendo quindi la logica dell’allegoria non possiamo non procedere per associazioni: la sequenza straniata in cui Anna traduce in inglese, senza capirla, la dichiarazione d’amore che Benno sembra volerle rivolgere (in italiano), ci fa pensare alla difficoltà di comunicare senza rimanere imbrigliati nei codici utilizzati; l’evocazione dell’atto masturbatorio da compiere in scena rimanda al fatto che l’attore tira fuori qualcosa di estremamente intimo (e questo accade sempre, senza bisogno di masturbarsi in scena!); la favola dello scorpione e della rana, poi, interpretata con ironia (uno dei pochi momenti divertenti dello spettacolo), è la più evidente metafora del rischio del fatto teatrale.
La riflessione sul teatro, però, si radicalizza col progredire dello spettacolo perché, man mano che iniziano a parlare dell’impossibilità di comunicare realmente col pubblico, gli interpreti smettono completamente di “agire”: all’azione, infatti, si sostituisce un interminabile vaniloquio circa il fatto (per nulla nuovo, in verità) che in scena l’attore non vive mai totalmente l’azione, che il contatto con lo spettatore è quasi irraggiungibile, ecc…
Quelle cui si fa riferimento in “Pink, me and the roses” sono contraddizioni che fanno parte dell’essenza del teatro, il quale, per rimanere vivo, ha forse proprio bisogno di metterle in evidenza e di porsi in maniera attenta e problematica nei loro confronti: ma il rifiuto dell’azione che Codice Ivan ci ha offerto in questa sua opera prima può essere una soluzione possibile? Non sarà più opportuno continuare a fare teatro pur logorandone le forme dall’interno?
Le sequenze più riuscite, non a caso, sono quelle in cui si “fa” realmente qualcosa: la prima è quella in cui gli attori si ritagliano un momento privato di realtà quando, sotto le note di una musica ad alto volume, parlano fra loro senza che noi possiamo ascoltarli (il tutto con un gusto fortemente cinematografico).
L’altra è rappresentata dal momento in cui Anna sale in piedi sull’orlo dello schienale della poltrona e si getta a terra, mentre la voce registrata dice “in fondo anche la Duse aveva una tecnica”.
Eccola finalmente: un’azione drammatica subito negata.
Giulia Taddeo

La pornografia dell'onesta







INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO
Pink, Me & The Roses
Compagnia Codice Ivan
di e con Anna Destefanis, Leonardo Mazzi e Benno Steinegger
spettacolo vincitore Premio Scenario 2009


Una poltrona. Una parrucca, Un PC su un tavolo con dei fiori. Scena bianca. Tre figure. E’ questa la visione con cui si apre “Pink, Me & The Roses”, lo spettacolo della compagnia Codice Ivan, vincitore del Premio Scenario dello scorso anno. Tre artisti in scena che si occupano, oltre che della performance, anche delle questioni più tecniche, come il cambio delle luci o la regolamentazione del suono. Tre artisti che non lasciano indifferente il pubblico che intanto cerca di capire quale possa essere il messaggio che vogliono o tentano di veicolare, e che scopriamo, leggendo la breve biografia dei giovanissimi attori, provenire da ambiti tutt’altro che vicini al teatro ed eterogenei fra loro. Eppure sembra che abbiano trovato sul palcoscenico, nel contatto con lo spettatore, il loro campo d’indagine preferito. Lo spettacolo da una parte pare essere un’accozzaglia di elementi trasposti su un telo bianco che fa da scenografia; dall’altro cela, in modo tutt’altro che banale, una ricerca di risposte al quesito dell’arte, al tema della naturalezza e spontaneità in scena; nasconde o antiteticamente palesa un bisogno di mettersi a nudo veramente davanti allo sconosciuto che è dall’altra parte del palco. La motivazione con cui la giuria dell’Associazione Scenario ha fatto di Codice Ivan la compagnia vincitrice del premio nel 2009 fa riferimento alla questione del linguaggio, alla difficoltà che si incontra sempre più spesso nel dialogo con l’altro. E Anna Destefanis, Leonardo Mazzi, Benno Steinegger, attraverso l’utilizzo di voci, le proprie, preregistrate, che fanno da sfondo a movimenti a volte concitati, reiterati, con un rimando palese ad alcune gag di tanto cinema passato; attraverso un dialogo che scopriremo essere senza sbocco per i due performer in scena, e che, traslando il discorso a una questione di carattere sociale, potrebbe essere il segno dei tempi odierni; attraverso anche una certa dose di nonsense e una forte multidisciplinarietà, sembrano appunto voler confermare quella tesi. Si tratta di uno spettacolo leggero, divertente, che alla fine decide di mettere noi spettatori alla prova: si sciolgono i lacci che tengono legato il telo bianco che funge da quadro scenico e i tre artisti si pongono sulla ribalta, fermi, a osservare noi che dall’altra parte non sappiamo se sia il caso di applaudire o meno. Partono due, poi tre, poi cinque spettatori a battere le mani, ma i referenti dell’arte fanno segno di no con la testa. E allora? Nell’aria che fino a qualche minuto prima era abbastanza serena, ora si respira solo imbarazzo. Imbarazzo nel non sapere cosa fare, come comportarsi. Dopo qualche ardito commento da parte del pubblico, la compagnia sembra voler congedarsi, ma solo dopo averci dato la chiave di lettura per comprendere che la finzione non è più possibile, l’inganno non regge più, e allora meglio denudarsi di un ruolo forse mai concretamente acquisito.
Maria Pina Sestili

Le parole della danza







Serenade/ The preposition
Ideazione e direzione: Bill T Jones
Coreografia: Bill T Jones con Janet Wong e i membri della compagnia
Luci: Robert Wierzel
Video: Janet Wong
Suono: Sam Crawford
17 marzo 2010, Teatro Romolo Valli, Reggio Emilia



Quando un coreografo di fama internazionale come l’afroamericano Bill T Jones passa per l’Italia, è quasi inevitabile che un appassionato di danza vada a vederlo. La sua, infatti, è una compagnia pluripremiata a livello internazionale che, in 25 anni di attività, ha sempre mostrato di saper unire sforzo tecnico, stile personale e tematiche di carattere sociopolitico.
Lo spettacolo che, dopo tanti anni di assenza, Bill T Jones ha portato a Reggio Emilia è ispirato alla figura del presidente americano Abraham Lincoln.
Prime considerazioni di fronte a questo tema: sarà forse uno spettacolo dai toni retorici e sentimentali? O, forse, la componente storico-politica soffocherà del tutto la poesia della danza?
In fondo, anche le indicazioni del programma di sala potevano fomentare simili interrogativi, soprattutto a causa della massiccia presenza di una componente testuale: si parlava, infatti, di uno spettacolo “stratificato”, in cui trovavano posto i discorsi di Lincoln (Serenade, fra l’altro, significa anche ‘discorso’), ma anche quelli di Bill T Jones e dei suoi danzatori.
Eppure, tutto in questo spettacolo (dai testi, alle scelte musicali, scenografiche e, soprattutto, coreografiche) contribuisce a creare pur momenti di autentica poesia, attraverso una vera e propria dichiarazione d’amore nei confronti dell’umanità intesa come capacità di sostegno, aiuto e accettazione dell’altro nonostante le differenze individuali.
Non potrebbero essere fisicamente più diversi l’uno dall’altro i danzatori di questa compagnia multietnica: essi si stagliano su una scena completamente bianca e occupata solo da sei colonne allineate sul fondale, quasi a costituire la facciata della Casa Bianca ( ma anche a richiamare il granito della tomba di Lincoln all’Oak Ridge Cemetry di Springfield).
Saranno poi delle proiezioni (immagini delle Guerra Civile, figurazioni astratte, vecchie fotografie che ritraggono uomini e donne di diverse etnie) a vivificare questa scena aperta, aerea e luminosa, in cui le colonne, inizialmente allineate, verranno poi spostate dagli stessi danzatori come a creare un porticato da tempio greco. All’atmosfera sospesa e senza tempo del palcoscenico (venata, tuttavia, da momenti di inquietudine, come quando viene proiettata l’immagine della Casa Bianca in fiamme – forse un rimando al tentativo di assassinio di Washington?), fanno da contrappunto i pulpiti posti ai lati del proscenio da cui saranno pronunciati i testi e cantate le canzoni menzionate all’inizio: si tratta di parole che portano il ricordo dei seicentomila morti della guerra di secessione, ne ricostruiscono le fasi e ricordano il percorso del feretro di Lincoln assassinato fino a Springfield.
Ecco che, allora, i riferimenti alla storia, oltre a fornire la struttura complessiva dell’intero spettacolo, sembrano così coagularsi attorno alla ribalta, mentre la scena è del tutto occupata dalla bellezza e dall’energia della danza, in uno scambio ininterrotto fra palco e proscenio.
Si tratta di una danza aerea, leggera, aperta, bella da vedere. I danzatori percorrono delle distanze quasi senza peso: saltano, certo, ma non per fare sfoggio del proprio virtuosismo tecnico; quando si staccano dal suolo, così come quando sono a terra, sembrano costantemente attraversati da un’energia che li sostiene, liberandoli della loro sostanza corporea. Ciò è ancor più significativo perché si tratta di corpi fortemente caratterizzati, dal danzatore esile a quello possente e atletico, dalla danzatrice asiatica a quella afroamericana.
E’ un ritratto di un’umanità nobile perché legata da sentimenti di rispetto e solidarietà reciproci: tante volte nel corso dello spettacolo gli interpreti si immobilizzano lungo corridoi di luce, come a comporre un gruppo scultoreo: ognuno assume una posa ben precisa, ma, soprattutto, tutti insieme si sostengono, sorreggendosi l’un l’altro.
Il movimento è reso ancor più suggestivo e commovente dal commento musicale. Si va dalle note struggenti di un violoncello che suona Mozart, alla celebre “John Brown” interpretata da una soprano, fino ai vecchi canti gospel che celebrano la fede e l’amore per Dio, ed ecco che i danzatori si muovono con l’eleganza di creature angeliche, ma al tempo stesso umanissime.
Serenade/ The preposition, è un ‘discorso’ e una ‘proposta’ d’amore, che, è bene dirlo, poco ha a che fare col sentimentalismo.
Anche quando i testi pronunciati dagli interpreti (dal vivo o mediante registrazioni) raccontano esperienze vissute, queste ultime sono trasfigurate, nobilitate dalla pura bellezza dell’arte.
Si capisce allora quale può essere il senso di un’operazione artistica ispirata a un personaggio storico come Lincoln: essa rimanda alla vicenda “di una persona nata nel 1809” (Lincoln, per l’appunto), ma può (e deve) essere anche la storia di quanti, come Bill T Jones, si interrogano su ciò che alcuni protagonisti della storia possono significare per loro, su cosa rappresentano e, soprattutto, su quanto ci hanno insegnato.
Giulia Taddeo

Quel Don Giovanni di Platonov





Platonov
di Anton Cechov
versione italiana di Nanni Garella e Nina Tchechovskaja
regia Nanni Garella
con Alessandro Haber, Susanna Marcomeni, Nanni Garella, Franco Sangermano



Russia, il regime sovietico è caduto da poco. Il sipario si apre su un bar dove un uomo e una donna giocano annoiati a scacchi davanti a una bottiglia di vodka. Di fianco un vecchio militare dorme sulla sedia a rotelle, mentre un altro signore legge distrattamente il giornale.
“Platonov”, all’Arena del Sole di Bologna dal 16 al 21 febbraio, è un testo giovanile di Cechov. Rimasto inedito e senza titolo fino alla morte dell’autore, è stato pubblicato postumo nel 1923. Fu per primo Strehler a metterlo integralmente in scena in Italia nel 1957. Sicuramente non un capolavoro, ma Nanni Garella ha saputo portarlo, nella forma e nella struttura scenica, all’altezza di altre opere più mature dell’autore tagliando parti e personaggi dal testo originale.
Differente è l’ambientazione: la provincia russa di fine 900 stava attraversando, con la caduta del regime sovietico, gli stessi rivolgimenti che avevano caratterizzato la Russia di fine 800 con il passaggio dal regime zarista a una prima forma di industrializzazione.
Garella ci mostra questa realtà attraverso i personaggi, le loro storie, i dialoghi, gli stati d’animo e i pensieri. Troviamo famiglie che hanno subito un repentino ribaltamento dei ruoli sociali, persone potentissime ridotte alla mercé di uomini che hanno raggiunto improvvisamente la ricchezza spesso illegalmente. La storia della generalessa Anna Petrovna (Susanna Marcomeni) è emblematica. Anna infatti si trova privata della sua “dacia” e indebitata con un disonesto imprenditore, Petrij (Marco Cavicchioli), arricchitosi in pochi anni comprando bettole e vendendo cambiali.
All’inizio della storia prevale la noia: i personaggi accettano inerti il passare del tempo senza provare nessuna emozione. La situazione sembra cambiare quando torna in paese Michail Vasilovic detto Platonov (Alessandro Haber). La prima impressione che dà di sé è di uomo sposato, ben vestito, spiritoso, ironico, sicuro di sé e ben voluto da tutti.
Ben presto scopriamo la sua vera natura: Platonov in realtà non è che un Don Giovanni (qui notiamo molte attinenze con il personaggio di Molière), ma di serie B, alcolizzato e dedito al vizio. Sempre pronto a innamorarsi e a conquistare il corpo di una donna, ma incapace poi di mantenere una relazione stabile. Un uomo brillante che avrebbe potuto realizzare grandi cose, ma che invece si accontenta del suo lavoro di maestro di scuola elementare, senza amici e senza ambizioni.
Platonov con grande lucidità evidenzia negli altri personaggi questo degrado sociale: essi sono soprattutto degli alcolisti sfaccendati, come Platonov stesso, il medico Nikolaj (Nanni Garella), il colonnello Porfirij (Claudio Saponi) e il generale Ivan Ivanovic (Franco Sangermano).
Una società dove un criminale come Osip (Gianluca Balducci) può permettersi di essere ancora in libertà perché la gente non ha il fegato di andare a denunciare le sue malefatte, e dove uno strozzino come Petrij viene considerato un uomo d’onore.
Platonov sarà il primo a farne le spese: verrà infatti ammazzato da Sof’ja (Silvia Giulia Mendola), giovane fidanzata di Sergej (Rosario Lisma), che aveva avuto in passato una storia d’amore con Platonov senza riuscire a dimenticarlo. Sof’ja gli sparerà quando lui si rifiuterà di partire con lei.
Ne risulta un quadro sconfortante fatto di relazioni fittizie dove i sentimenti e i sogni non trovano spazio. In compenso trionfano l’ipocrisia, il cinismo, la falsità, la brama di potere. Merito di Garella è di aver messo in evidenza vizi e contraddizioni di una società che a noi spettatori sembrano tristemente attuali.
Una nota speciale per l’interpretazione di Alessandro Haber che si conferma attore versatile di grande esperienza, più cinematografica che teatrale, dalla forte presenza scenica, capace di incarnare visceralmente il suo personaggio.
Un altro successo cechoviano quindi per Garella e Haber, dopo lo messa in scena di “Zio Vania” del 2004, con meritati applausi finali del pubblico.
Giulia Mento

martedì 6 aprile 2010

L’attesa di un labile discorso






MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA


“Ma bisogna che il discorso si faccia!”

da “L'Innominabile” di Samuel Beckett
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori



Forse il problema è mettere in scena Beckett oggi. Forse i Marcido Marcidorjs hanno ideato la migliore delle rappresentazioni possibili del romanzo ”L’Innominabile”. Ma i settantacinque minuti di “Ma bisogna che il discorso si faccia”, all’Arena del Sole il 25 e il 26 febbraio, scorrono ma non toccano. L’apparato visivo salva la nave e l’equipaggio intero. Un siparietto rappresentante un enorme aborto umano dalle pupille sgranate osserva allucinato il pubblico mentre le voci metalliche del coro nascosto dietro di esso – oltre alla scenografia, straordinario anche l’uso della voce – incutono timore allo spettatore medio. Si sente: “Non si può andar via... paura! Questo è lo spettacolo, aspettare lo spettacolo!”
Già. Inizia l’eterna attesa. Aspettiamo tutti che il discorso che s’ha da fare ingrani. Ma chiaramente non ingrana, come nelle migliori intenzioni di quel simpatico irlandese di nome Sam. La speranza dello spettatore si accende quando il coro gracchiante smette di borbottare e si spengono le luci. Cade il pannello ed ecco cinque croci metalliche su cui ciondolano cinque cristi in tuta acetata e scarpe nere da clown. Cinque maschere senza bocca e con gli occhi più che fuori dalle orbite. Mi chiedo se i cinque attori siano ciechi oppure no. Inizia il fiume di parole. Brevi monologhi alternati ad altrettanto brevi cori. Interessante il lavoro sulla voce, giocano sugli acuti, sui bassi, sugli effetti polifonici, non per niente il sottotitolo dello spettacolo recita concerto grosso. Impossibile fermare le parole. Al quarantesimo minuto vorremmo strappar loro quella bocca che dicono di non avere. Ogni tanto si perde il filo del loro labile discorso. Si sente solo ogni tanto risuonare la parola tempo. Tempo che non finisce mai. Al sessantesimo minuto siamo un po’stanchi dei cinque teletubbies beckettiani. Ci propinano una storiella di nuore, generi e suocere. E come sembrano contenti! Ma bisogna anche che il discorso finisca! Eccoci accontentati. E sulle note di “Ancora” cantata da una sensualissima Mina (perché non hanno scelto De Crescenzo?) ci lasciano storditi e un po’ sollevati.
Maria Claudia Trovato