MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA
“Ma bisogna che il discorso si faccia!”
Alcuni spettacoli ci lasciano indifferenti perché ci sembra che, dietro alla complessità del loro linguaggio, non siano sorretti da una vera necessità, da un “senso” profondo. E poi ci sono gli spettacoli davvero complessi, quelli che ti costringono a impiegare tutte le tue energie per poterli apprezzare, per valutarne la portata poetica, e restarne spiazzato. E’ forse questo il caso di “Ma bisogna che il discorso si faccia!” dei Marcido Marcidorjs. In scena, cinque dissacranti crocifissioni: cinque creature in tuta da jogging e con la testa ricoperta da una maschera deformante sono legate ad altrettante croci di latta; ancor prima di concentrarsi sulle loro parole, si osservano i loro occhi enormi, spalancati, attoniti. Cosa guardano questi occhi? Un mondo desolato, fuori dal tempo e dallo spazio, nel quale Dio è presente solo sotto forma di grottesco simulacro: in un mondo simile le parole di questi strani individui (uomini, mostri o nessuno dei due?) vagano disperate, in un vuoto incolmabile. E’ la parola il cuore pulsante dello spettacolo, una parola capace di far vibrare questi mostri in croce di pathos autentico: è quella illustre di Samuel Beckett, certo, ma è anche quella rivissuta e rielaborata per raccontarci, in maniera surreale (perché al di là del reale) e struggente, l’angoscia di un tempo immobile, in cui si va e si viene senza motivo, in cui si vorrebbe smettere di pensare per non guardare il buio cosmico che ci circonda.Tutto questo si traduce in un concerto di voci così funzionante da sembrare un meccanismo di alta orologeria: si tratta di suoni distorti, però, di voci disumanizzate (avrebbero forse potuto esprimersi altrimenti simili creature?) che bombardano senza tregua l’orecchio dello spettatore, sfinendolo. Ecco quindi che la componente puramente sonora del discorso prende spesso il sopravvento su quella del significato, comunicandoci su un piano extra-logico quell’inquietudine di cui è intessuto il testo beckettiano.Eppure bisogna farlo, questo discorso: esso sembra esistere indipendentemente dal soggetto che lo pronuncia, è vero, ma nel non-luogo e nel non-tempo di questa inquietante realtà (quasi un’angosciosa immagine dell’aldilà), ci appare come l’unica cosa che continui a testimoniare della nostra esistenza e della nostra essenza di uomini. Pensare e parlare, parlare e pensare: croce e delizia della natura umana.
Giulia Taddeo
“Ma bisogna che il discorso si faccia!”
da “L'Innominabile” di Samuel Beckett
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori
Alcuni spettacoli ci lasciano indifferenti perché ci sembra che, dietro alla complessità del loro linguaggio, non siano sorretti da una vera necessità, da un “senso” profondo. E poi ci sono gli spettacoli davvero complessi, quelli che ti costringono a impiegare tutte le tue energie per poterli apprezzare, per valutarne la portata poetica, e restarne spiazzato. E’ forse questo il caso di “Ma bisogna che il discorso si faccia!” dei Marcido Marcidorjs. In scena, cinque dissacranti crocifissioni: cinque creature in tuta da jogging e con la testa ricoperta da una maschera deformante sono legate ad altrettante croci di latta; ancor prima di concentrarsi sulle loro parole, si osservano i loro occhi enormi, spalancati, attoniti. Cosa guardano questi occhi? Un mondo desolato, fuori dal tempo e dallo spazio, nel quale Dio è presente solo sotto forma di grottesco simulacro: in un mondo simile le parole di questi strani individui (uomini, mostri o nessuno dei due?) vagano disperate, in un vuoto incolmabile. E’ la parola il cuore pulsante dello spettacolo, una parola capace di far vibrare questi mostri in croce di pathos autentico: è quella illustre di Samuel Beckett, certo, ma è anche quella rivissuta e rielaborata per raccontarci, in maniera surreale (perché al di là del reale) e struggente, l’angoscia di un tempo immobile, in cui si va e si viene senza motivo, in cui si vorrebbe smettere di pensare per non guardare il buio cosmico che ci circonda.Tutto questo si traduce in un concerto di voci così funzionante da sembrare un meccanismo di alta orologeria: si tratta di suoni distorti, però, di voci disumanizzate (avrebbero forse potuto esprimersi altrimenti simili creature?) che bombardano senza tregua l’orecchio dello spettatore, sfinendolo. Ecco quindi che la componente puramente sonora del discorso prende spesso il sopravvento su quella del significato, comunicandoci su un piano extra-logico quell’inquietudine di cui è intessuto il testo beckettiano.Eppure bisogna farlo, questo discorso: esso sembra esistere indipendentemente dal soggetto che lo pronuncia, è vero, ma nel non-luogo e nel non-tempo di questa inquietante realtà (quasi un’angosciosa immagine dell’aldilà), ci appare come l’unica cosa che continui a testimoniare della nostra esistenza e della nostra essenza di uomini. Pensare e parlare, parlare e pensare: croce e delizia della natura umana.
Giulia Taddeo
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