mercoledì 21 aprile 2010
L'uomo che vedeva gli angeli
Angels in America di Toni Kusher, Teatridithalia
Da tempo recensire uno spettacolo teatrale non coincide con l’analizzare il testo letterario oggetto della messa in scena. Eppure, nel caso di Angels in America. Parte prima, per la regia di Elio De Capitani e Fernando Bruni, sembra proprio la genialità del testo a garantire gran parte della riuscita dello spettacolo stesso. L’autore è l’americano Tony Kusher, l’anno il 1993: un successo degno del premio Pulitzer.
La vicenda ci sembra un intreccio di destini paralleli: Prior, malato di Aids, è abbandonato dal compagno Louis il quale si innamora di Joe, giovane avvocato mormone e omosessuale; quest’ultimo ha represso la propria sessualità sposando una donna, Harper, che, dopo il matrimonio, ha iniziato a fare un uso smodato di psicofarmaci.
A essi si aggiunge Roy Cohn, avvocato corrotto e malato anch’egli di Aids, ma incapace di ammettere la propria omosessualità: è lui a incarnare lo spirito del proprio tempo, almeno così come Kusher intendeva rappresentarlo. Unico personaggio realmente esistito (avvocato maccartista responsabile della condanna a morte dei coniugi Rosemberg, ingiustamente accusati di cospirazione nel 1953), contribuisce a restituirci l’immagine di un’America infetta dall’Aids che, come una peste, pervade ogni livello sociale.
La malattia mette alla prova i personaggi, misurandone lo spessore morale. Ecco che allora Prior sembra quasi un profeta martire: è lui che vede gli angeli, cioè guarda con chiarezza il proprio tempo e le sue insidie, senza rinunciare mai alla propria umanità.
L’America del 1985 (anno della vicenda) è, come quella di oggi, una società in cui guardare oltre le apparenze si rivela quanto mai necessario: in questo senso i registi sentono l’attualità del testo di Kusher, perché, oggi più di ieri, le sorti delle nazioni sono profondamente intrecciate e ci si trova a vivere nell’ambito di regimi fintamente liberali, perché, in realtà, omofobi fino ai più alti livelli.
Sono forse due gli elementi che rendono incisivo uno spettacolo di più di tre ore: da un lato l’orchestrazione “musicale” dell’azione (una “fantasia” strutturata in duetti, terzetti, arie e variazioni); dall’altro la qualità degli attori, che ci regalano un’interpretazione “di pancia”, da cui emergono momenti di densa sensibilità.
Lo spazio scenico ospita bene la struttura musicale cui si è accennato: esso consiste in una scena bianca di finti mattoni in cui le luci isolano di volta in volta le porzioni di spazio dove agiscono gli attori; pochi gli oggetti: i materassi, la coperta rossa sul letto dei due ammalati, fino al frigorifero con vetrata sul retro da cui si affaccia Harper nelle sue allucinazioni e attraverso il quale si accede al regno dell’immaginazione.
L’immaginario determina il sapore dello spettacolo nel suo insieme ed emerge attraverso espedienti di carattere cinematografico: le proiezioni, la scena dei sogni in comune (con Prior, in vesti femminili, e Harper, accomunati dal desiderio di fuggire dalla realtà), fino all’apparizione conclusiva dell’angelo con tanto di crollo di muri; un momento, ci dice Prior, “molto Steven Spielberg”.
Eppure, quello che davvero ci rimane di questo spettacolo lungo, ricco e che strizza l’occhio al kitsch è la volontà di recuperare l’umano, anche attraverso gli aspetti più bassi della malattia: non a caso i momenti più teneri, ma anche più disperati, vedono il confronto fra Prior e Belize (ex amante di Prior) i quali, quasi a scongiurare la paura della morte, non smettono di ricorrere allo sberleffo, al sarcasmo e all’ironia “camp”. Ma la vera forza di questi momenti sono i due attori, Edoardo Ribatto e Fabrizio Matteini (i migliori), perfetti nel rendere la sensibilità più autentica al di là della dissacrazione.
Un maggiore cinismo ci si sarebbe potuti aspettare dal pur bravo Cristian Maria Gianmarini (Joe): l’impressione è quella di una reticenza ad andare al fondo dell’ amoralità che spesso caratterizza nettamente questo personaggio.
Giulia Taddeo
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