CHI SIAMO

Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
recensioni, reazioni.

Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

WEB Elena Cirioni

SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dms dell'Università di Bologna.

venerdì 11 giugno 2010

Brat, il ragazzo vestito di bianco

Brat (fratello), cantieri per un'opera rom
Napoli Teatro Festival 10 giugno 2010

Bisogna dirlo: questi ragazzi sono bravi. “Tengono la scena”, per usare un’espressione cara al gergo del teatro. Ma è la verità. Con “Brat”, spettacolo che il regista leccese Salvatore Trimacere ha allestito a seguito di un lungo workshop insieme a un gruppo di ragazzi rom, ci troviamo (per 60 minuti) di fronte a un congegno scenico assolutamente funzionante.
Lo dicevano già i registi e teorici dell’inizio del ‘900: il ritmo è ciò che garantisce la riuscita dello spettacolo e Brat sembra esserne la prova lampante. Tanto più che in scena non ci sono solo attori professionisti.
Ma è proprio la dinamica serrata dell’azione scenica a consentire alla storia, ispirata all’Opera del mendicante di John Gay (e non troppo originale in verità), di dipanarsi come una sorta di cabaret dal sapore brechtiano da un lato e quasi da festa zingara (ma con evidenti innesti di matrice metropolitana) dall’altro.
Soggetto: un uomo ricco e mascalzone non accetta di dare in sposa la propria figlia a Brat, giovane rom colpevole di piccoli reati. Riesce a farlo uccidere, ma non prima che egli riesca e dire: se siamo noi piccoli delinquenti il problema, che dire allora dell’economia, della politica, dei mass media? Evidenti le allusioni al problema della discriminazione e demonizzazione del diverso, ben rappresentato, chiaramente, da un gruppo proveniente da un’etnia così bistrattata come quella rom.
Ma non è questo che convince. Ci lasciamo piuttosto sedurre dall’estrema disciplina (che poi è il contraltare del ritmo cui accennavo prima) con cui gli attori fanno in modo che in scena prenda vita un mondo di ladruncoli, prostitute e bande di strada, il tutto in maniera sempre colorata, dinamica (le danza-dalla break dance, al folklore, agli stacchetti di sapore televisivo- è il vero leitmotiv dello spettacolo) e con un commento musicale rigorosamente dal vivo.
Quasi inevitabile che tutto questo sfoci in un momento di vera festa. Niente e applausi e ringraziamenti da professionisti consumati nel finale. Meglio trascinare regista e spettatori in scena, in un’ultima, festosissima danza.
Giulia Taddeo

Questo articolo è stato pubblicato sul sito internet del Napoli Teatro Festival:
http://www.teatrofestivalitalia.it/Napoli_Teatro_Festival_Italia_recensione_del_giorno_Brat_il_ragazzo_vestito_di_bianco-1534.2491.7.html

Omaggio alla necessità

Pan-Palazzo delle arti, Napoli
Incontro dal titolo "Perché il teatro?"
9 giugno 2010

La cultura non serve a consolare, ma a disturbare, a mettere in discussione: esordisce così Goffredo Fofi, nell’incontro dal titolo “Perché il teatro?” che lo vede protagonista assieme a Salvatore Tramacere, Davide Iodice e Emanuele Valenti.
Un intervento appassionato e al tempo stesso lucidissimo quello di Fofi, che getta lo sguardo all’ultimo trentennio della storia italiana (il periodo Craxi-Berlusconi), sottolineando come, di fronte a un lavoro che tende progressivamente a scarseggiare e a un tempo libero che invece cresce esponenzialmente, la cultura, e quindi il teatro, abbia assunto una pluralità di forme davvero smisurata.
Che uso abbiamo fatto della libertà di espressione artistica che il nostro tempo ci concede? Niente di buono, probabilmente, se la cultura tende a porsi sempre più come intrattenimento nel mare magnum di messaggi e immagini inutili che la macchina dei mass media ci lancia a ripetizione. Recuperare la necessità del fare teatro: ecco la ragione fonda che Fofi vede alla base di una seria e consapevole pratica artistica. “Le parole ingannano” dice citando Strindberg, tanto più che esistono parole che chi si occupa di teatro non dovrebbe mai usare: è il caso del termine “formazione” che per Fofi indica una volontà di ridurre l’individuo a una forma fissa (costituita da un uso sbagliato di tecniche e insegnamenti). Meglio parlare di educazione che, etimologicamente, rimanda alla capacità di tirare fuori da ognuno quanto di meglio e di unico ha da offrire, anche mediante un percorso che può essere complesso e doloroso.
E di educazione, così come Goffredo Fofi sembra intenderla, possono a buon diritto parlare gli altri tre relatori dell’incontro. Nessuno di essi è un maestro ma, forse, un ricercatore di incontri autentici, di relazioni umane, di compagni, come dice Iodice, con i quali affrontare una crisi che non è solo economica, ma anche dell’anima.
Ecco che, quindi, da questi interventi spiccano i momenti in cui, parlando dei propri progetti, i nostri protagonisti ricordano gli episodi che più li hanno coinvolti sul piano umano: dall’emozione di vedere un gruppo di giovani rom riunirsi con puntualità e professionalità per le prove di uno spettacolo (Trimacere), alla difficoltà di liberare i ragazzi di Scampia dalle logiche di competizione e prevaricazione provenienti dalla televisione (Valenti).
Il tutto nella consapevolezza che parlare di teatro sociale non ha senso, perché se il teatro non è sociale, allora non è nemmeno teatro.
Giulia Taddeo

Orizzonti d’attesa sotto tiro

Tanja Bruguera
MADRE, Museo d'arte contemporanea donna regina, Napoli
7 giugno 2010

Soirée avanguardistica ieri sera al MADRE. In verità lo “scandalo”era stato annunciato dal pomeriggio, quando si era diffuso un comunicato stampa in cui si diceva che la performance dell’artista cubana Tanja Bruguera era stata annullata causa ostracismo da parte della città di Napoli e divergenze con la direzione del museo. Tuttavia pubblico e stampa erano comunque invitati, stessa data e stesso luogo, a un incontro con l’artista. Forse qualcuno ha sperato fino all’ultimo di vedere una performance teatrale, e chissà che tale speranza non sia stata effettivamente soddisfatta. Tanja, affiancata da alcuni rappresentanti del MADRE (dissociatisi sin dal principio da quanto sarebbe stato detto) ha tenuto una conferenza stampa decisamente sui generis. Non tanto nella forma (tutto era al suo posto, dai fotografi alle bottigliette d’acqua sul tavolo) quanto nel contenuto: difficile ripeterlo con la gravità che l’artista ha saputo conferire alle proprie parole, dichiarando dall’inizio alla fine che si riferiva a fatti realmente accaduti. In breve, la notte tra il 2 e 3 giugno Tanja, rientrando nel proprio hotel, avrebbe sentito una voce che l’ammoniva circa la sete di ricchezza e l’egoismo imperanti nella nostra società, ripentendo addirittura le parole pronunciate da Papa Woytila “totus tuus”. Questo episodio, per cui la stessa Tanja dichiara di provare imbarazzo, è stato la causa dell’annullamento dello spettacolo, dal momento che sembra aver mandato letteralmente in crisi l’artista, la quale, peraltro, sembrerebbe piuttosto indifferente a questioni legate alla spiritualità e alla religione.
Inutile dire le reazioni scatenatisi in sala: l’atteggiamento prevalente è stato quello di un ironico scetticismo, generato dalla consapevolezza di trovarsi di fronte a una provocazione ben riuscita. Eppure, se di performance in fondo si è trattato, un risultato l’ha ottenuto: al di là del disincanto complessivo e dello sdegno di chi ha gridato alla pagliacciata, c’è stato chi ha accolto quella di ieri come uno dei lavori meglio riusciti della Bruguera, perché sorretto da un messaggio etico fortemente sentito.
Come dire, se compito della provocazione è quello di scaldare gli animi e arrivare a dividerli profondamente, non possiamo non dire che l’obiettivo è stato raggiunto.
Giulia Taddeo

mercoledì 9 giugno 2010

Un corpo, una danza

ME(Mobile/Evolution)di Claire Cunningham
Napoli Teatro Festival
6 giugno 2010

Un percorso di crescita attraverso il dolore, quasi da romanzo di formazione: sembra essere questa la parabola descritta da ME (Mobile/Evolution), spettacolo di cui Claire Cunningham (danzatrice costretta a muoversi con le stampelle dopo un incidente in bicicletta e una diagnosi di osteoporosi) è l’io parlante e danzante.
Una storia divisa in due momenti, uno per scendere all’inferno, l’altro per tentare, con tenacia infaticabile, di ritornare in superficie.
Un groviglio di stampelle sparse sul palco costituisce una sorta di selva oscura ospedaliera, e, secondo l’esempio del più celebre dei viaggi fra mondi, è proprio dalla selva che si parte. Ogni stampella, ci racconta Claire tra ironia e amarezza, ha le sue caratteristiche e sembra quasi impossibile trovarne una abbastanza comoda e sicura. Ma, soprattutto, ogni stampella è stata una compagna per un periodo della sua vita, talvolta rischiando di farla cadere, talaltra lacerandole il braccio a causa di un’impugnatura troppo rigida, ma sempre costringendola a camminare a testa bassa per fare attenzione, come afferma lei stessa,“a dove appoggiare i piedi, o meglio, le stampelle”.
Eppure Claire un modo per alzare la testa riesce a trovarlo: se, infatti, lo spettatore più cinico e smaliziato poteva fino a quel punto lamentare un indugio eccessivo sulla questione della malattia, ecco che tale insinuazione viene prontamente smorzata.
La parabola cui si faceva riferimento all’inizio, infatti, è destinata a salire e la Claire-ammalata si trasforma nella Claire-danzatrice. Tutù nero, due stampelle legate ai piedi e due saldamente impugnate con le mani, la performer (stavolta squisitamente ironica) si lancia dapprima in una sequenza di danza classica (col piglio deciso e altezzoso che appartiene allo stereotipo della danse d’école), per scivolare addirittura nel tip tap sulle note di “Singing in the rain”.
Dimostrazione di capacità tecniche codificate nonostante l’handicap? Non direi. Si tratta piuttosto della presentazione di un itinerario personale, il cui interesse per lo spettatore non risiede nell’eccezionale e indiscutibile forza d’animo della protagonista. Quello che forse rimane di questo spettacolo è l’esito squisitamente artistico che il percorso di Claire ha prodotto, vale a dire l’acquisizione di una qualità di movimento unica, caratterizzata da grazia e leggerezza impalpabili. Grazia e leggerezza comunque sui generis, se è vero che Claire non vuole volare ma continuare orgogliosamente ad “arrampicarsi”.
Giulia Taddeo (Premio Lettera 22)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito internet del Napoli Teatro Festival:
http://www.teatrofestivalitalia.it/Napoli_Teatro_Festival_Italia_recensione_del_giorno_Un_corpo_una_danza-1534.2453.7.html