CHI SIAMO

Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
recensioni, reazioni.

Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

WEB Elena Cirioni

SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dms dell'Università di Bologna.

venerdì 29 ottobre 2010

Premio Giornalistico di Critica Teatrale Lettera 22

Giulia Taddeo, membro della redazione di questo blog, ha vinto il Primo Premio del concorso di Critica Teatrale Lettera 22 con la seguente motivazione:

perché ha una scrittura partecipe e un immediato procedimento
ambientativo, uno stile d'osservazione poetica e una capace vena
umana, uno scetticismo in forma d'acuto retrogusto stroncatorio e
un'allergia all'autoreferenzialità, un elastico rimando ad
altri codici interpretativi e una sensibilità anche ironica, un
rapporto ravvicinato con l'inquietudine e un'inclinazione
costante e sapiente al ritmo di domande vere senza mai risposte false.


Ecco gli articoli del concorso:


Racconti di un critico incerto. Episodio 1: Oper opis

Öper Öpis
regia Zimmermann & De Perrot
visto al Napoli Teatro Festival

Confesso che l’idea di avere un bambino come vicino di poltrona a teatro non costituisce per me un pensiero molto allettante. Eppure nel caso di Oper opis, con la regia del duo svizzero Zimmermann-De Perrot, la vicinanza di un ragazzino non più che decenne mi è stata molto utile. In che modo? Per capire i meccanismi con cui lo spettacolo tentava di far presa sullo spettatore, probabilmente.
Se penso ai momenti in cui sentivo il mio vicino emettere gridolini di stupore o ridere divertito, mi vengono in mente le gag comiche che puntellano l’azione scenica, il ricorso all’illusionismo, oltre ai funambolismi dei cinque acrobati di questo circo spettacolare e con vocazioni poetiche.
E’ a questo punto che il mio sguardo interagisce con quello del mio vicino.
Tre paroline magiche turbinano nella mia testa.
Prima: disequilibrio. L’intera azione, salti mortali compresi, si svolge su una grossa pedana basculante che occupa quasi l’intera area scenica. Come non pensare alla nobile riflessione teatrale che fa del disequilibrio uno dei principi-base del movimento scenico e della sua efficacia? Ma, erudizione a parte, è evidente che tale situazione di precarietà tenga sulle spine gli spettatori.
Seconda: corpi. I protagonisti dello spettacolo diventano corpi-macchina (perfetti tecnicamente), corpi-oggetto (letteralmente indossando tavole di compensato, specchi, ecc…), corpi comici, corpi-clichè (come nelle sequenze coreografate in stile aerobica anni ’80).
Terza (che ne prevede anche un’altra): gioco e sogno. Per fare entrambe le cose è necessario qualcuno che giochi e che sogni. Di chi si tratta? Di Zimmermann e De Perrot, naturalmente.
Sembrano due bambini che giocano a creare immagini viste solo in sogno, oppure, il che è lo stesso, che sognino di giocare con creature fantastiche.
L’uno realizza dal vivo la tessitura sonora, l’altro interagisce con i cinque stralunati interpreti, quasi fossero giocattoli a misura d’uomo sbucati da un mondo fantastico.
E’ però una piccola immagine che mi si imprime nella memoria in tutta questa straordinaria macchina di voli, lustrini e trucchi da mago. E’ De Pierrot che indossa, tipo casco integrale, una cassa acustica. Un quadro surrealista. Ma di un surrealismo edulcorato. Perché se Breton e compagni stanavano le forze oscure dell’inconscio per riprodurle sulla tela, in Oper opis il sogno prende forma senza mai venarsi di inquietudine.
Inquietudine sublime però, che avrebbe trasformato un circo mirabolante in una poesia di movimento.


Racconti di un critico incerto. Episodio 2: Elettra

Elettra. Biografia di una persona comune
di Nicola Russo / tratto dalle parole di Elettra Romani / elaborazione drammaturgica Nicola Russo e Sara Borsarelli / regia Nicola Russo
visto al Napoli Teatro Festival

Inconfondibile il dialetto romano. Talvolta strumento di facile comicità per attori mediocri, talaltra cifra distintiva di autentici artisti della risata. C’è però un caso in cui il romano (o romanesco che dir si voglia) assume un sapore diverso, amaro. E’ quando a parlarlo sono le donne. Non mi riferisco alle ventenni con il cellulare in una mano e il pc nella valigetta, parlo delle signore che hanno conosciuto la guerra, la miseria, i sacrifici. E’ il modo di parlare delle nonne o di alcune zie un po’ attempate: parole profondamente attaccate alle cose cui si riferiscono, intrise delle sofferenze vissute, ma sempre velatamente ironiche, quasi non volessero indulgere in sentimentalismi.
Elettra. Biografia di una persona comune. studio# 1 consiste proprio nell’incontro con una di queste donne: Elettra Romani, subrettina e attrice d’avanspettacolo romana. Un nome da tragedia greca e una storia fatta di abbandoni, di sacrifici e di un successo artistico che non è mai arrivato completamente.
Perché iniziare a parlare di questo spettacolo con una lunga e sentimentale digressione sulle caratteristiche di un certo dialetto? Probabilmente perché la protagonista indiscussa di questo studio è la voce dialettale appena descritta: quella di Elettra, della quale si ascoltano alcuni stralci registrati, ma anche quella dei due attori, Nicola Russo e Sara Borsarelli, che si fanno unico io narrante delle vicende della protagonista. Parlano in vece di Elettra, insomma, non imitandola né allontanandosi radicalmente da essa, ma conservando, e mirabilmente, il cuore pulsante del suo racconto orale. Ne rispettano il ritmo e trasformano le parole in un magma sonoro che ribolle di vita.
Nicola e Sara, due attori come più diversi non potremmo immaginarli: lui, viso da bambino, gambette agili e scattanti; lei, felina, voce roca, passionale. Nel corso dello spettacolo, quando Nicola diventerà progressivamente Alfonso Tomas (marito di Elettra e anch’egli artista del varietà), la femminilità di Sara–Elettra emergerà in tutta la sua carnale potenza.
E’ un teatro povero il loro, fatto di un paio di scarpe col tacco e di canzoncine da avanspettacolo cantate senza musica. Poesia delle piccole cose, forse. La capacità di aprire una finestra su certo teatro di ieri, grosso baraccone fatto di glorie minute, che fagocita le miserie individuali sotto lustrini e paillettes.

Racconti di un critico incerto. Episodio 3: Guruguru
Guruguru
di Ant Hampton
visto al Napoli Teatro Festival

“Mi chiamo Cicci. Fino a tre anni fa ero un attore, ma il panico da palcoscenico mi paralizzava. Non mi faceva vivere né esibire. Ecco perché da allora vivo con un paio di cuffiette nelle orecchie 24 ore al giorno. Ne ho bisogno. Ho bisogno di sentire una voce che mi dica cosa devo fare”. Mi è capitato di pronunciare queste e altre frasi nel corso di Guruguru, esperimento di “auto-teatro” di Ant Hampton. Ci ha provato lo spettacolo a farmi credere di essere un'altra persona e, soprattutto, di non riuscire a pensare, a dire e a fare niente senza che un volto proiettato su uno schermo e una voce registrata mi dessero istruzioni. Come? Per 50 minuti ti trovi seduto con altre 4 persone, ognuna con un nomignolo fittizio e con indosso un paio di cuffiette da cui ascoltare una voce che in ogni istante ti dice cosa devi fare. Insieme fornite delle indicazioni affinché compaia su un monitor l’immagine di un volto (il guru del titolo) che tenta, goffamente, di psicanalizzarti, fin quando ti fa dire che senza quella faccia e senza le tue cuffiette non riesci a pensare.
E’ difficile non capire dove l’operazione artistica di cui sei co-protagonista voglia andare a parare, dato che tenta di ricordarti che sei immerso in una società consumistica, “pensata” dai mass media e composta da tanti consumatori compulsivi che, come te, non sanno più cosa vogliono davvero e non riescono a vivere realmente nel mondo.
Certamente dapprincipio il “gioco” cui stai partecipando ti coinvolge totalmente (sei attento a quello che devi dire, cerchi di non sbagliare, ecc…); dopo poco tempo (e per fortuna) capisci come funziona la macchina ludico-teatrale di Guruguru, riesci a padroneggiarla maggiormente e, magari, a boicottarla (ad esempio non rispettando il tuo turno di battuta o concedendoti il lusso di guardare l’orologio).
Un’immersione totale nella performance seguita da uno straniamento, dunque: non so se quest’ultimo sia ciò che il regista ricercava in sede di spettacolo. Non credo. Certamente, però, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di se è il fine ultimo che, dentro e fuori dal teatro, un’esperienza di questo genere deve ottenere.
Resta un ultima questione: quello di Hampton voleva essere un esperimento che, per definizione, avrebbe dovuto ingenerare in ogni spettatore uno stato di alienazione e disorientamento. Che dire allora dei miei tentativi di boicottare la performance e dello scetticismo che mi ha accompagnata per 30 minuti su 50?Esperimento fallito…?

Giulia Taddeo