MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA
“Ma bisogna che il discorso si faccia!”
da “L'Innominabile” di Samuel Beckett
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori
Sembrerebbe un uomo il personaggio dipinto sulla tela che ci accoglie in sala, ma in realtà è un ominide segnato da difformità fisiche quasi raccapriccianti, in una posa da verme, da subalterno, come metafora della condizione che la compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa tenta di palesare attraverso questo lavoro “Ma bisogna che il discorso si faccia...”, che prende spunto dal romanzo “L’Innominabile” di Samuel Beckett. L’oggetto di questo discorso, di questo monologo a più voci forse sarebbe più corretto definirlo, è la sofferenza, lo stato di cattività entro cui sembrano rinchiusi i cinque personaggi, emanazioni di un solo io pensante a cinque bocche, e la ricerca/non-ricerca di liberazione che pervade l’inesauribile flusso di parole che riempie la sala per settantacinque lunghissimi minuti. E’ sotto il segno dell’astrazione e della rarefazione che i performer agiscono in scena, costretti su croci di latta che fungono da confessionale, con tanto di corone di spine/mollette da bucato sulle teste, incapaci o semplicemente non desiderosi di liberarsi da questa coercizione, dalla quale elargiscono parole, frasi, discorsi, senza connessioni, che vertono sullo scorrere di un tempo apparentemente immobile, sull'impossibilità di comunicare, sull'immobilità e il desiderio di movimento, sulla solitudine, agli astanti che sghignazzano sulle loro sofferenze. Ed ecco che i nostri personaggi dall'indecifrabile identità si trasformano anche in martiri, per l'appunto, crocifissi. Martiri che in realtà hanno più le sembianze di clown, indossando le tipiche lunghe scarpe dalla punta bombata, e di grotteschi esseri fantastici, con le loro maschere dagli occhi esorbitanti e sprovviste di bocca, fisionomicamente vicinissime all' ET di Spielberg. Esseri, insomma, vagamente antropomorfi, con maschere sprovviste di labbra, che però altro non fanno che parlare, sputare fuori da questa bocca assente fiumi di parole come flusso ininterrotto di esperienza, intervallati da canti/lamenti corali che fanno da sottofondo alla non-vicenda. Un essere moltiplicato per cinque quello in scena, che forse aspirerebbe a essere considerato un uomo, a entrare a far parte di quel mondo cui rivolge i suoi pensieri, magari nella tenue speranza di venir compreso o compatito, ma che probabilmente solo alla fine si rende conto di essere nient’altro che una marionetta nelle mani di chissachi o chissacosa muove i fili dell’esistenza. Rilevanti il lavoro sulla vocalità operato dalla compagnia, sotto il segno della ricerca di canali espressivi forti e indipendenti, e la reinvenzione dello spazio scenico, attraverso l'utilizzo di una scenografia fortemente simbolica studiata da Daniela Dal Cin che rende il tutto un magnifico "quadro per un'esposizione spettacolare".
Maria Pina Sistili
“Ma bisogna che il discorso si faccia!”
da “L'Innominabile” di Samuel Beckett
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori
Sembrerebbe un uomo il personaggio dipinto sulla tela che ci accoglie in sala, ma in realtà è un ominide segnato da difformità fisiche quasi raccapriccianti, in una posa da verme, da subalterno, come metafora della condizione che la compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa tenta di palesare attraverso questo lavoro “Ma bisogna che il discorso si faccia...”, che prende spunto dal romanzo “L’Innominabile” di Samuel Beckett. L’oggetto di questo discorso, di questo monologo a più voci forse sarebbe più corretto definirlo, è la sofferenza, lo stato di cattività entro cui sembrano rinchiusi i cinque personaggi, emanazioni di un solo io pensante a cinque bocche, e la ricerca/non-ricerca di liberazione che pervade l’inesauribile flusso di parole che riempie la sala per settantacinque lunghissimi minuti. E’ sotto il segno dell’astrazione e della rarefazione che i performer agiscono in scena, costretti su croci di latta che fungono da confessionale, con tanto di corone di spine/mollette da bucato sulle teste, incapaci o semplicemente non desiderosi di liberarsi da questa coercizione, dalla quale elargiscono parole, frasi, discorsi, senza connessioni, che vertono sullo scorrere di un tempo apparentemente immobile, sull'impossibilità di comunicare, sull'immobilità e il desiderio di movimento, sulla solitudine, agli astanti che sghignazzano sulle loro sofferenze. Ed ecco che i nostri personaggi dall'indecifrabile identità si trasformano anche in martiri, per l'appunto, crocifissi. Martiri che in realtà hanno più le sembianze di clown, indossando le tipiche lunghe scarpe dalla punta bombata, e di grotteschi esseri fantastici, con le loro maschere dagli occhi esorbitanti e sprovviste di bocca, fisionomicamente vicinissime all' ET di Spielberg. Esseri, insomma, vagamente antropomorfi, con maschere sprovviste di labbra, che però altro non fanno che parlare, sputare fuori da questa bocca assente fiumi di parole come flusso ininterrotto di esperienza, intervallati da canti/lamenti corali che fanno da sottofondo alla non-vicenda. Un essere moltiplicato per cinque quello in scena, che forse aspirerebbe a essere considerato un uomo, a entrare a far parte di quel mondo cui rivolge i suoi pensieri, magari nella tenue speranza di venir compreso o compatito, ma che probabilmente solo alla fine si rende conto di essere nient’altro che una marionetta nelle mani di chissachi o chissacosa muove i fili dell’esistenza. Rilevanti il lavoro sulla vocalità operato dalla compagnia, sotto il segno della ricerca di canali espressivi forti e indipendenti, e la reinvenzione dello spazio scenico, attraverso l'utilizzo di una scenografia fortemente simbolica studiata da Daniela Dal Cin che rende il tutto un magnifico "quadro per un'esposizione spettacolare".
Maria Pina Sistili
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