CHI SIAMO

Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
recensioni, reazioni.

Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

WEB Elena Cirioni

SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

ATTENZIONE! Questo blog è realizzato dal laboratorio in completa autonomia dal Dms dell'Università di Bologna.

martedì 30 marzo 2010

La morale dell'applauso




Nastasja. Primo studio
Liberamente tratto dal romanzo di F. Dostoevskij “L’idiota”
Drammaturgia Paolo Billi e Filippo Milani
Regia Paolo Billi
Con i detenuti della Sezione Penale della Casa Circondariale di Bologna e Botteghe Molière


Lampade a olio, coperte e sedie al capezzale di quattro letti dismessi; il pubblico tutto intorno alla scena, della sala piccola dell’Arena del Sole, si abbraccia a una veglia.
Da un’atmosfera nebbiosa e silente si materializzano i personaggi di “Nastasja”, primo studio su “L’idiota” di Dostoevkij diretto da Paolo Billi, con i detenuti della Sezione Penale della Casa Circondariale di Bologna e le attrici di Bottega Molière.
Il regista bolognese che da più di dieci anni compie un lavoro teatrale all’interno dell’Istituto Penale Minorile di Bologna, da due anni sembra voler dare luce alle voci adulte di questo mondo e dirigersi verso il carcere della Dozza per farlo teatro.
Il tempo dello spettacolo si sospende sulla notte in cui il principe Myskin e il rivale Rogozin vegliano sul corpo di Nastasja, donna attorno alla quale i due protagonisti agitano un groviglio di passioni e sentimenti.
Il cadavere della donna, uccisa da Rogozin per la troppa passione e per la rabbia di non possedere per intero il suo amore, accompagna gli uomini verso un viaggio a ritroso: fra giochi e balli rivivono con lei momenti della loro vita, la loro diversa maniera di amarla, la malattia del principe e la sua solitudine.
Dinamica dei ricordi e stasi del tempo presente si alternano guidati dalle note del violoncello Lilian Keniger, mentre tutto è sorretto da un silenzio che scava oltre la scena.
Vedo muovere i cinque attori del Teatro della Dozza e sembrano portare addosso pesanti abiti bagnati, immagino che possano formare lungo il loro tragitto grandi pozzanghere d’acqua. Gli attori vestono i loro indumenti con imbarazzo e un po’ di scomodità, sembra censurato un possibile autentico travaso delle anime, l’anima dell’attore verso l’anima del personaggio. Il loro dire sembra, soprattutto all’inizio dello spettacolo, imploso dentro i loro corpi, cassa di risonanza afona, per trasformarsi lungo il corso dello spettacolo in una parola a tratti più calda e consapevole.
Le quattro attrici più disinvolte nei modi, presentano una perfezione della maniera recitativa sicuramente in perdita che toglie, toglie e toglie. La perfezione danneggia la verità?
Dai letti di degenza, della malattia e dell’oblio, si agitano insonni parole di denuncia: E’ la rabbia di uomini veri, che sotto gli abiti di attori, parlano di sé, anche loro, come il principe Myskin, affetti da una malattia che li rende diversi dal genere umano: è il loro essere delinquenti che li fa apparire così estranei e gli regala la maschera di fantasmi fra gli uomini, anche fra chi quella sera, fra il pubblico, per riscattarsi da una morale di cenere e fango, applaude a più non posso e torna a casa soddisfatto di aver partecipato a uno spettacolo di detenuti.
Ilaria Palermo

mercoledì 24 marzo 2010

Tempesta: Giorgione tra pittura e teatro



INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO
Tempesta Compagnia Anagoor con Anna Bragagnolo e Pierantonio Bragagnolo Regia di Simone Derai

Uno spettacolo, un dipinto, una visione: “Tempesta” degli Anagoor, andato in scena il 17 marzo alla Soffitta. La sala è immersa in un clima di attesa, che, durante lo spettacolo, si riempirà di silenzi, respiri e sussulti. La scena, divisa in due parti, si compone di due schermi, da un lato, e da una scatola trasparente, dall'altro. Un vero e proprio esempio di montaggio delle attrazioni: immagini, suoni e corpi si amalgamano per restituire l'arte di Giorgione, il pittore di Castelfranco Veneto, paese di appartenenza del gruppo in questione che, con questa produzione, ha meritato una segnalazione al Premio Scenario 2009. Sugli schermi vengono proiettate le immagini di parti del corpo degli attori, Anna e Pierantonio Bragagnolo, due fratelli, che, anche sulla scena si compensano, data la loro somiglianza-diversità. Inizialmente è il corpo del ragazzo a venir proiettato e percepito dall'occhio dello spettatore per frammenti, che, montati insieme, restituiscono un’immagine nuova dell'attore, che, gradualmente, si materializza nella scatola all'altro lato della scena. È proprio lui in carne e ossa, che si sveste e riveste, mostrandoci il corpo nella sua sostanza materica e plastica, che ci porta a vedere l'uomo come dipinto-scultura. Il corpo si muove, vive e reagisce ai suoni di un motore, un'elica che produce il rumore del vento, della tempesta. Non è danza né rappresentazione, ma, semplicemente, pura realtà corporea. Lo stesso processo viene riproposto per l'attrice, che ci appare nuda sugli schermi e anche nella realtà della scatola, nella quale si muove, sperimentando lo spazio. Assistiamo a una vera e propria trasformazione del corpo umano che, pian piano, grazie al movimento, diventa sostanza plastica, arte pittorica. Una sequenza di flash visivi ci propone l'immagine di una Giuditta giorgionesca, di un’Olympia, che conquista, passo dopo passo, la sua posizione definitiva distesa sul divano in modo lascivo. Appare un uomo, come un guerriero cinquecentesco in una visione, un tuffo in un passato di cui abbiamo rimembranze iconografiche. Lo spettacolo sembra mostrare il processo con il quale Giorgione è arrivato a costruire i suoi soggetti pittorici, cosa c'è dietro il colore, la materia. Il corpo diventa un dipinto vivente che interagisce con lo spazio della scena. Frammenti visivi si ricompongono nella mente dello spettatore per restituire un quadro d'insieme, un tableau vivant, l'intera opera di un grande artista. La sala piomba in un silenzio che si ripete nei momenti in cui il quadro svanisce per poi riprendere a ricomporsi. Non c'è una fine perché il processo di composizione è continuo, perché è come se fossimo a una mostra vivente in cui non è necessario applaudire.
Marta Franzoso

Frame geometriche pure




INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO
Tempesta Compagnia Anagoor con Anna Bragagnolo e Pierantonio Bragagnolo Regia di Simone Derai

Teatro o arte visiva? Performance attorale o multimediale? Forse la seconda mi si presenta più agevole come domanda, ma la prima proprio non mi conviene affrontarla, o finirei per ingarbugliarmi in un infinità di paradossi e cul-de-sac, essendo la questione ancora inesorabilmente aperta. È tutta una questione di “frame”, cornici. “È grazie alle cornici, e alla nostra costante attività di incorniciamento psicologico, che riusciamo ad attualizzare quei messaggi meta-comunicativi”, citando Bateson. Cornici culturali, fisiche e cognitive, utili “istruzioni” per noi osservatori. Resta il fatto che la sensazione che ne proviene è quella di un incanto, di una sospensione, a tratti interrotta, purtroppo, da noia, causa momenti di stasi che diventano lungaggini. Perciò addio trance. Una tempesta così ancora non l’avevo immaginata, e questo è ciò che c’è di più positivo. Bandita la parola, su di un palco completamente rivestito di pvc bianco, due pannelli rettangolari affiancati e paralleli, sospesi a mezz’aria con dei fili di nylon, posti alla destra, rispetto allo spettatore, di misura media. Due schermi, fatti e finiti. Alla Bill Viola, le immagini che vi “scorrevano” sopra, passavano da uno all’altro, avevano spesso a che fare con elementi naturali e proponevano flussi d’acqua che correvano in salita invece di svuotarsi in preda della forza di gravità. Sulla sinistra una scatola, trasparente ma opaca, piena di fumo, di nebbia, e di due corpi, o uno. E se la densità materica dell’effetto cortina di fumo non ci permetteva di mettere a fuoco cosa si stava trasformando al suo interno, allora ci pensavano gli schermi a far emergere all’esterno ciò che nella scatola sprofondava. Nel corso della performance, in balia di due attori statuari e di sapienti effetti estetizzanti, la camera-scatola cambierà più volte aspetto, proponendoci un giaciglio per una corpo femminile a metà tra l’Olympia di Manet e la Maya desnuda di Goya, o acquisendo la foggia di un bosco attraversato da una miriade di differenti infiltrazioni di luce . Effetti magistrali e perfettamente combinati: “un quadro per un’esposizione spettacolare” diceva Daniela Dal Cin per il loro spettacolo, e di un quadro per un’esposizione spettacolare potrebbe trattarsi anche nel caso degli Anagoor. Non a caso i ragazzi non si negano, traggono la loro ispirazione da Giorgione (si potrebbe dire che cerchino di tradurlo affidandosi alle grazie della scenotecnica più moderna e cercando una concertazione delle componenti del linguaggio teatrale in grado di farlo ri-vivere), e dagli elementi atmosferici propri della tempesta (tra l’altro uno dei dipinti del Giorgione è così intitolato). La natura offre un codice (…) per annunciare la fine dei giorni. L’Apocalissi (nel senso e di battaglia finale, e di rivelazione) che interessa è tanto quella universale quanto quella di ciascun individuo che sente e soffre il tempo breve della giovinezza, l’irreparabile finitezza. La crescita, la sfida contro il chaos, la caducità. Alle previsioni astrologiche dei cieli del primo lustro del XVI secolo si sostituiscono i segni dell’incombente contemporaneo, ma la condizione umana di cosciente essere effimero rimane il primo motore dell’angoscia e dei suoi risvolti più sublimi”. Così gli Anagoor. A questo punto mi sembra inutile rubar loro le parole, penso sia più funzionale confermare se dal punto di vista meramente spettacolare abbiano raggiunto il loro obiettivo o meno: sì, in parte, visto che questa scena minimalista è in grado di prendere vita, matericamente intesa, cioè è in grado di produrre vita, ed è un concetto saldo e oramai condiviso da molti che sia questa una delle prerogative del fare teatro. Anche se in questa ricerca pura, rischia di risultare, nella sua sublimazione estetica di un contenuto iconografico, nella sua impeccabile simmetria, eccessivamente concettuale e lontana…
Futura Tittaferrante

giovedì 18 marzo 2010

Dove va a finire la parola?


MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA

“Ma bisogna che il discorso si faccia!”

da “L'Innominabile” di Samuel Beckett
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori

Alcuni spettacoli ci lasciano indifferenti perché ci sembra che, dietro alla complessità del loro linguaggio, non siano sorretti da una vera necessità, da un “senso” profondo. E poi ci sono gli spettacoli davvero complessi, quelli che ti costringono a impiegare tutte le tue energie per poterli apprezzare, per valutarne la portata poetica, e restarne spiazzato. E’ forse questo il caso di “Ma bisogna che il discorso si faccia!” dei Marcido Marcidorjs. In scena, cinque dissacranti crocifissioni: cinque creature in tuta da jogging e con la testa ricoperta da una maschera deformante sono legate ad altrettante croci di latta; ancor prima di concentrarsi sulle loro parole, si osservano i loro occhi enormi, spalancati, attoniti. Cosa guardano questi occhi? Un mondo desolato, fuori dal tempo e dallo spazio, nel quale Dio è presente solo sotto forma di grottesco simulacro: in un mondo simile le parole di questi strani individui (uomini, mostri o nessuno dei due?) vagano disperate, in un vuoto incolmabile. E’ la parola il cuore pulsante dello spettacolo, una parola capace di far vibrare questi mostri in croce di pathos autentico: è quella illustre di Samuel Beckett, certo, ma è anche quella rivissuta e rielaborata per raccontarci, in maniera surreale (perché al di là del reale) e struggente, l’angoscia di un tempo immobile, in cui si va e si viene senza motivo, in cui si vorrebbe smettere di pensare per non guardare il buio cosmico che ci circonda.Tutto questo si traduce in un concerto di voci così funzionante da sembrare un meccanismo di alta orologeria: si tratta di suoni distorti, però, di voci disumanizzate (avrebbero forse potuto esprimersi altrimenti simili creature?) che bombardano senza tregua l’orecchio dello spettatore, sfinendolo. Ecco quindi che la componente puramente sonora del discorso prende spesso il sopravvento su quella del significato, comunicandoci su un piano extra-logico quell’inquietudine di cui è intessuto il testo beckettiano.Eppure bisogna farlo, questo discorso: esso sembra esistere indipendentemente dal soggetto che lo pronuncia, è vero, ma nel non-luogo e nel non-tempo di questa inquietante realtà (quasi un’angosciosa immagine dell’aldilà), ci appare come l’unica cosa che continui a testimoniare della nostra esistenza e della nostra essenza di uomini. Pensare e parlare, parlare e pensare: croce e delizia della natura umana.
Giulia Taddeo

I nuovi mostri: le marionette biomeccaniche figlie di Beckett



MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA

“Ma bisogna che il discorso si faccia!”

da “L'Innominabile” di Samuel Beckett
drammaturgia e regia Marco Isidori
con Maria Luisa Abate,
Paolo Oricco, Marco Isidori

Sembrerebbe un uomo il personaggio dipinto sulla tela che ci accoglie in sala, ma in realtà è un ominide segnato da difformità fisiche quasi raccapriccianti, in una posa da verme, da subalterno, come metafora della condizione che la compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa tenta di palesare attraverso questo lavoro “Ma bisogna che il discorso si faccia...”, che prende spunto dal romanzo “L’Innominabile” di Samuel Beckett. L’oggetto di questo discorso, di questo monologo a più voci forse sarebbe più corretto definirlo, è la sofferenza, lo stato di cattività entro cui sembrano rinchiusi i cinque personaggi, emanazioni di un solo io pensante a cinque bocche, e la ricerca/non-ricerca di liberazione che pervade l’inesauribile flusso di parole che riempie la sala per settantacinque lunghissimi minuti. E’ sotto il segno dell’astrazione e della rarefazione che i performer agiscono in scena, costretti su croci di latta che fungono da confessionale, con tanto di corone di spine/mollette da bucato sulle teste, incapaci o semplicemente non desiderosi di liberarsi da questa coercizione, dalla quale elargiscono parole, frasi, discorsi, senza connessioni, che vertono sullo scorrere di un tempo apparentemente immobile, sull'impossibilità di comunicare, sull'immobilità e il desiderio di movimento, sulla solitudine, agli astanti che sghignazzano sulle loro sofferenze. Ed ecco che i nostri personaggi dall'indecifrabile identità si trasformano anche in martiri, per l'appunto, crocifissi. Martiri che in realtà hanno più le sembianze di clown, indossando le tipiche lunghe scarpe dalla punta bombata, e di grotteschi esseri fantastici, con le loro maschere dagli occhi esorbitanti e sprovviste di bocca, fisionomicamente vicinissime all' ET di Spielberg. Esseri, insomma, vagamente antropomorfi, con maschere sprovviste di labbra, che però altro non fanno che parlare, sputare fuori da questa bocca assente fiumi di parole come flusso ininterrotto di esperienza, intervallati da canti/lamenti corali che fanno da sottofondo alla non-vicenda. Un essere moltiplicato per cinque quello in scena, che forse aspirerebbe a essere considerato un uomo, a entrare a far parte di quel mondo cui rivolge i suoi pensieri, magari nella tenue speranza di venir compreso o compatito, ma che probabilmente solo alla fine si rende conto di essere nient’altro che una marionetta nelle mani di chissachi o chissacosa muove i fili dell’esistenza. Rilevanti il lavoro sulla vocalità operato dalla compagnia, sotto il segno della ricerca di canali espressivi forti e indipendenti, e la reinvenzione dello spazio scenico, attraverso l'utilizzo di una scenografia fortemente simbolica studiata da Daniela Dal Cin che rende il tutto un magnifico "quadro per un'esposizione spettacolare".
Maria Pina Sistili



Italia paese di...guai

INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO
COSMOPOLIS
PSICOPATOLOGIE DELLA VITA METROPOLITANA

Baloon Performing Club
studio (20’) con Yuri Ferrero, Giorgia Goldini, Damiano Madia, Fabio Padovan, Rebecca Rossett.
Menzione premio Scenario 2009

Viviamo in stato d’emergenza, non c’è dubbio. Uomini, donne, artisti in questo caso, avvertono che le loro menti vivono uno stato di torpore e afasia. Adesso tutto quel che luccica (anche se dubito abbia mai luccicato davvero) si rivela per quel che è: “Italia paese di merda” gridano i Baloon Performing Club.La compagnia, nata a Torino nel 2006, si costituisce come un ensemble di svariata provenienza artistica. Il gruppo, sotto la direzione di Damiano Madia, crea con “Cosmopolis” una partitura di voce, musica e danza.Gli artisti, tre performer e un dj, entrano in scena a passo disinvolto; con pantaloni ignifughi presi in prestito dal corpo dei vigili del fuoco e felpe che nascondono i loro volti.I Baloon ci permettono di entrare all’interno delle loro tragedie quotidiane, non sono loro che raccontano ma siamo noi a intrufolarci nelle loro vite a scorgerne frammenti; conosciamo la storia del sig. Ferrero, spacciatore e consumatore di droghe, che non riesce più a capire quanto la droga sia causa o effetto dei suoi mali; altra storia è quella di un operaio, che minacciato dall’instabilità economica, si sente responsabile di non poter garantire nessuna certezza alla propria famiglia.Il marcio risale dal fondo e come un tarlo logora le fondamenta della vita italiana. Le canzoni di Giorgia, presentate da una performer con tutte le dovute movenze ammiccanti, degne di “Amici”o “X Factor”, sono l’esempio del ridicolo in cui versa l’Italia; ridicolo che a tratti non sembra solo criticato ma assunto, quasi come delle momentanee crisi di identità da parte degli interpreti. Cosa ci resta oggi oltre le melodrammatiche e barocche canzoni che scorazzano fra festival e talkshow? La solitudine dell’uomo, i suoi automatismi, la rabbia, in fondo in fondo giù nell’anima imbellettati dalle essenze più fragranti . Baloon creano una scena semplice, l’ elemento centrale è uno schermo che accoglie il pubblico, ancor prima che gli attori entrino, con immagini ipnotiche di figure tridimensionali. Quello che il gruppo ci offre è una spersonalizzazione dell’uomo contemporaneo utilizzando diversi livelli linguistici. Gli attori passando attraverso le loro storie di malessere esistenziale confluiscono in stati di automatismo, riconducibili a ombre senza volti che sfilano e danzano a ritmo techno sul grande schermo. Si presentano come la parte visibile di una condizione psichica, riconducibile per analogia a quelle bestie macellate tutte identiche e tutte morte che ritornano ancora una volta sullo schermo: la parte più nera dell’esistenza umana che affiora. La nota stonata dei quattro attori è una loro eccessiva volontà di presentare se stessi in un atto di totale imposizione. Tutto quello che si vede è, non sembra sia possibile per lo spettatore andare, con il proprio sentire, oltre le dichiarazioni fisiche e vocali degli interpreti. Una mancanza di ossigeno per lo spettatore.
Ilaria Palermo

Crocifisso il Paino fra due panche


COME BESTIE CHE CERCANO BESTIE


Imamama
studio (20’) di e con Marco Rapisarda, Massimo Genco
Menzione premio scenario per Ustica 2009


Una storia sporca di sangue e fango si prefigura quella degli Imamama. Un immaginario, che recupera la parola pasoliniana, si manifesta sulla scena in momenti di grande verità e poesia, alternati per esatta contrapposizione a momenti di più ricercato artificio. I due artisti rischiano di cadere in atteggiamenti attoriali dal troppo pathos (non sentito), creano momenti di coralità vicini a partiture coreografiche che tolgono respiro alla conquista della loro verità.
Due belle figure quelle degli attori, diversi per fisicità e carattere, così come i due Romano della “Storia Burina” di Pasolini: Romano il Paino, piccolo e beffardo, tutto l’opposto di Romano il Rumeno, grande e silente, che prende il posto di quello che per Pasolini era il Burino.
Storia di discriminazione, adesso non più locale ma internazionale verso la gente dell’est, storia di iniziazione per chi come il Rumeno “si ricostruisce pezzo per pezzo” e si trasforma sul modello dell’altro. Una storia che vive al margine della condizione umana, in una superficie di scolo in cui risiedono tutti gli scarti, in una zona d’ombra: la Roma cattiva, all’interno della quale vengono assorbite le vite dei due ragazzi, fra macellazioni clandestine, abusi, violenze e incontri di boxe.
All’interno di una scena povera per qualità e quantità degli elementi (due panche di legno grezzo e una bacinella con dell’acqua), lo spettacolo si articola in successione di capitoli, che scandiscono le diverse fasi della vita dei due giovani: l’arrivo del Rumeno al Testaccio, il suo prendere parte a una nuova microsocietà, il rapporto di odio e amicizia con il Paino, i soprusi subiti dal Rumeno, fino a giungere alla “notte brava” del Paino: due panche diventano all’occorrenza la base sopra la quale l’attore si denuda per la notte di sesso in uno squallido “immondezzaro”, base sopra la quale si lascia cadere morto come un piccolo cristo crocifisso.
Uno dei capitoli è: “Nadia e tutto quello che Nadia rappresenta”, ragazza usata dal Paino e desiderata dal Rumeno che diventa il pretesto attorno al quale i due creano giochi di forza e corse acrobatiche. La boxe rappresenta l’unico espediente per decretare il più forte: il Rumeno supera il Paino il quale stremato si abbandona sul corpo dell’amico-nemico; il Rumeno in una scena di grande pietà, all’interno del “casone” di sangue e fango, lava con la spugna il corpo del ragazzo in fin di vita; il Rumeno, con le sue cure, è madre e donna, figure lontane dal mondo del Paino.
“Come bestie che cercano bestie” è l’immagine della vita senza passioni, è l’esempio di un vita cieca che non vede soltanto per non esserci; è l’immagine di una, di tante solitudini e di una desolante inadempienza nei confronti della vita.
“Romano il Burino e Romano il Paino, erano incoscienti come uccelli che la mattina si svegliano, storditamente e felicemente lontani dalla preoccupazione dei cacciatori o di altri pericoli, e cominciano di buona lena a volare e a cantare” (Pier Paolo pasolini, “Storia burina”).
Ilaria Palermo


martedì 2 marzo 2010

... la conosci quella del fantasma formaggino?




LOGOMACHIA: PROGETTO KINKALERI

Alcuni giorni sono migliori di altri
Fantasmi da Romeo e Giulietta
Progetto, realizzazione Kinkaleri con Giulio Nesi, Filippo Serra
Arena del Sole, Bologna.

Lo ammetto. Per scrivere questa recensione ho avuto bisogno di visitare il sito internet dei Kinkaleri e leggere le dichiarazioni dei protagonisti di Alcuni giorni sono migliori di altri. Forse per trovare le parole con cui esprimere il significato dello spettacolo. Primo errore: cercare un senso in una performance che rifiuta qualsiasi logica di significazione, che consiste in un accostamento paratattico di sequenze del tutto autonome fra loro: unico elemento unificante è il lenzuolo che trasforma i due protagonisti in pesanti e maldestri fantasmi dall’accento toscano. I due si sfidano in una corsa estenuante da un capo all’altro del palco, si spogliano e si rivestono in continuazione, si dimenano sulle note di una musica hardcore, creano una sequenza di ombre cinesi con una figura di donna di compensato e, sul finale, uno racconta all’altro la barzelletta del fantasma formaggino. Ognuna di queste sequenze (solo ora mi accorgo di averle collegate per asintoto: che le mie parole si modellino sulla paratassi dello spettacolo?) è finita in sé, l’azione deve essere vissuta per quello che è, senza preoccuparsi di ciò che possa significare una volta inserita nella cornice teatrale. I protagonisti di questa azione, ovviamente, non sono personaggi dotati di una propria psicologia, l’identità individuale è cancellata e il performer, sotto il telo bianco che lo nasconde del tutto, è ridotto a pura figura. “Creare una corrente di energia attraverso l’accumulazione inutile di azioni, sequenze, momenti finiti in sé, senza rapporto gli uni con gli altri”: queste le intenzioni poetiche dello spettacolo le quali, però, oltre a tradursi in una performance dal ritmo decisamente lento, pongono i presupposti per un rapporto a dir poco problematico con la vicenda di Romeo e Giulietta. Dove sono i due amanti di Verona in questa operazione di riduzione all’elementare e all’essenziale? C’è forse un riferimento alla loro morte tragica nella storiella delle ombre cinesi? Anche se questi riferimenti ci fossero, non cambierebbero la sostanza dei fatti. A mancare non è tanto la citazione letteraria del testo shakespeariano, quanto qualcosa dello spirito di quella tragedia. Nelle già menzionate pagine web, si legge che quella di Romeo e Giulietta è la vicenda dell’amore puro, che non pensa. Non è forse questa una lettura un po’ datata, dato che concepisce la passione come un assoluto? Questi e molti altri interrogativi mi lasciano questi fantasmi: certo, ogni spettacolo ci spinge a porci delle domande e a riflettere, ma tali questioni riescono a rendere il fatto scenico più prezioso e denso di rimandi. E’ ben diverso quando, come in questo caso, la riflessione dello spettatore arriva quasi a impoverire la performance, che può forse essere definita solo per difetto, come rifiuto della dimensione degli psicologismi e del “senso”.
Giulia Taddeo

Dubbi a porte aperte



LOGOMACHIA: PROGETTO KINKALERI

Alcuni giorni sono migliori di altri.
Fantasmi da Romeo e Giulietta

“La diseducazione. Senza progresso. [...] E in questo paesaggio pieno di concatenata dolcezza e stagliato e netto di adolescenti vorrei non ci fossero attriti o resistenze troppo umane ma solo, integrali, le manifestazioni dell’amore, dell’odio, della violenza, della morte; vorrei essere chiaro fino in fondo e per farlo vorrei nascondere il soggetto, escludere ogni possibile interprete, o personaggio, eliminarlo alla vista per far apparire, con un lenzuolo che copre un corpo con due buchi per gli occhi, un fantasma. Un’attrazione sconvolgente nella cancellazione di identità, di soggetto, nella sua massima espressione di figura; è come separare i corpi dalle anime, tutto diventa essenziale, elementare, imbarazzante da trattare, una figura incredibile, da serie B. Un fantasma lo riconosci all’istante e con un fantasma puoi discutere di tutto subito senza bisogno di parole per spiegarsi, interrogarsi sui gusti o gli appetiti, potresti confessargli cose inimmaginabili. Un fantasma non va mai da uno psicanalista. E quella che vorrei è una lirica leggera. Da idioti.” [ note di regia di Kinkaleri. “Alcuni giorni sono migliori di altri”]
A cosa ci stiamo riferendo? Mi basta ricordare due corpi che rumoreggiano inutilmente sotto le lenzuola, mostrano le loro abilità atletiche, si esibiscono in scenette ridicole e ogni tanto si denudano. Qual è il senso? Portare in scene se stessi. Perché? Forse i due attori sono certi che le loro relazioni, basate su giochi di forza e violenza, siano materiale fertile a sufficienza per costruire, a partire da questo, una drammaturgia compiuta.
Allora credo che sia proprio questo l’anello mancante; i Kinkaleri, nello spettacolo “Alcuni giorni sono migliori di altri”, non ci hanno detto nulla di interessante, hanno messo in piedi un caos senza un progetto. Mi chiedo cosa volessero ottenere, forse una scena come contenitore di rabbie represse.
In qualità di pubblico ho provato una grande frustrazione e amarezza. E sempre in qualità di pubblico mi sono chiesta se questo basta al teatro. Qual è lo scarto che avviene affinché un pensiero possa trasformarsi in progetto? Tutti possiamo essere potenziali attori, registi, scenografi? Ma è davvero così? Proposte per chi richiede una voce.
Ilaria Palermo


Sotto sotto c'è Pulcinella



ASPETTANDO PULCINELLA

Pantalone e Pulcinella, ovvero l’affare della pollastrella e della monnezza
Ideazione e testi di Eleonora Fuser e Vanda Monaco Westerstahl
Regia Ruggero Cara
Con Eleonora Fuser e Vanda Monaco Westerstahl

La rassegna “Aspettando Pulcinella”, curata da Silvia Mei e Vanda Monaco Westersthahl, si è conclusa giovedì 11 febbraio con un frammento di un più lungo lavoro realizzato da Eleonora Fuser e dalla stessa Vanda Monaco.
“Pantalone e Pulcinella. Ovvero l’affare della pollastrella e della monnezza”, grazie all’accurato lavoro delle attrici, mescola antico e nuovo; da tempo le due donne indagano su una possibile riappropriazione in chiave contemporanea dei due importanti caratteri della Commedia dell’Arte.
La regia di Ruggero Cara, spiegano le attrici dopo lo spettacolo, ha chiarito alcune questioni drammaturgiche che apparivano irrisolte; la relazione servo-padrone, cara alla Commedia dell’Arte, vede un Pantalone attento a traffici illeciti di velenosissime ecoballe e un Pulcinella che, da bravo intenditore dei cicli della “monnezza” e del riciclo, si adopera affinché la questione vada a buon fine con inceneritori qua e là per l’Italia e un affare redditizio fra le mani.
Pantalone ha un’altra questione da risolvere: Lauretta. Il rifiuto della donna lo inquieta, anche qui è Pulcinella a preparare una bella e macabra vendetta; per questa“pollastrella”è in preparazione un bel piano di tortura, con audace gestualità e voce infernale Pulcinella ci fa vedere il corpo della ragazza, pian piano lo smembra, lo spella, essicca tutto e vende.
Un Pulcinella rinnovato si conquista la scena tanto quanto Pantalone, “è’ un match”, spiegano le attrici, fra due grandi personaggi e non solo; è uno confronto-scontro fra chi dà vita a quei caratteri.
Le attrici promuovono due maniere diverse di intendere il lavoro sulla maschera, Eleonora parla della necessità della maschera neutra: “sotto la maschera di Pantalone”, spiega, “c’è il vuoto”, Vanda, piuttosto, è promotrice di una maschera che già vive nell’attore; diversità e convivenza fra personaggi-attrici, fra chi, come Eleonora, ha bisogno di battute che si susseguono dinamiche e chi invece, come Vanda, parla dell’importanza dei silenzi.
Con i loro repertori gestuali e la loro fisicità ben marcata, i due personaggi alternano giochi di invasione e di conquista degli spazi. Una fisicità maschile quella di Eleonora nei panni di Pantalone, la fa apparire ben radicata al suolo, i suoi passi sono fermi, scattanti e decisi, tutto l’opposto di quel Pulcinella, volgare e salterino che sembra lottare con la forza di gravità, i suoi piedi non vogliono ancorarsi al suolo, in un gioco di equilibrio appare quasi sospeso a mezz’aria.
Lo spettacolo, per un pubblico di pochi eletti, purtroppo dura meno di trenta minuti; gli applausi sono battiti di mani stanche.
Ilaria Palermo

E' uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare!



ASPETTANDO PULCINELLA

Pantalone e Pulcinella, ovvero l’affare della pollastrella e della monnezza
Ideazione e testi di Eleonora Fuser e Vanda Monaco Westerstahl
Regia Ruggero Cara
Con Eleonora Fuser e Vanda Monaco Westerstahl

Un palcoscenico-ring sul quale si sfida una coppia a dir poco insolita: Pantalone e Pulcinella, due maschere che non comparivano mai insieme nemmeno nella Commedia dell’arte.
Ma qual è il motivo di un simile match nord-sud? Un traffico illegale di ecoballe, almeno all’inizio: Pantalone ha assoldato Pulcinella per questo lavoro sporco, ma, quando il sipario si apre, il napoletano ha già concluso qualche truffa ai danni del suo padrone, visto che le tanto attese ecoballe sono misteriosamente sparite. Pulcinella, però, tenta anche il raddoppio: sfruttando una delusione amorosa del già beffato Pantalone, gli propone servirsi della donna che lo fa soffrire (la ‘pollastrella’ del titolo) per un nuovo business, il traffico di organi. Tematiche da cronaca nera, certo, quelle affrontate in questo spettacolo, le quali mostrano, secondo le intenzioni del regista, il lato oscuro della Commedia dell’arte: basti pensare a quando Pulcinella illustra il processo di vivisezione della ragazza, un momento di comicità macabra che sembra una sorta di Testamento di Carnevale in chiave contemporanea. Chi è il vincitore dello scontro? Difficile dirlo: forse la simpatia del regista è rivolta bonariamente nei confronti di Pulcinella, soprattutto quando fa dire a Pantalone che il napoletano ha, come tutti quelli del sud, ‘una marcia in più’. Che poi tale marcia in più consista nell’arte della truffa Pantalone non lo sa, ma il pubblico se ne avvede bene e amaramente sogghigna di fronte a questa battuta apparentemente innocua.
Eppure, più che di uno scontro Pantalone-Pulcinella, questo spettacolo (in realtà uno studio di circa 30 minuti) è l’occasione di un confronto tra due attrici che non potrebbero essere più diverse: Eleonora Fuser e Vanda Monaco, le quali offrono un saggio del loro modo di rielaborare l’utilizzo della maschera. Gestualità e uso della voce vicine alla tradizione nel Pantalone della Fuser: la messa in forma di un corpo extraquotidiano che si muove per contrasti e, soprattutto, la capacità di porsi totalmente al servizio della maschera creano un gioco affascinante che vede questa donna perdere tutta la sua femminilità per diventare completamente Pantalone, non solo nel fisico ma anche nella voce. Una modificazione della vocalità del tutto assente nella performance della Monaco, la quale non vuole trasformarsi nella sua maschera, non le va incontro, ma se ne serve per comunicare un contenuto in maniera fortemente caratterizzata. Tale libero utilizzo della maschera emerge anche dalla gestualità meno codificata, col corpo piegato in avanti e l’appoggio leggero dei piedi sul pavimento, quasi fosse, esile e scattante, un ragazzino discolo alla Gianburrasca. Ma è anche inquietante e criminale questo Pulcinella, quasi nascondesse un lato oscuro come la maschera che indossa: lo si capisce, a esempio, nelle controscene, quando la Monaco assiste all’azione della sua compagna (la quale, quando non parla in prima persona, è invece sempre vigile) con un atteggiamento sospeso, incredulo, come se fosse un personaggio beckettiano.
L’impressione complessiva è quella di una commedia a due in cui il rovesciamento dello schema comico tradizionale è particolarmente vistoso: esso non ruota attorno all’unione di una coppia di innamorati, ma al compimento di un criminoso business, che vena la comicità di amarezza e angoscia, bloccando a metà la risata.
Giulia Taddeo

Nella fabbrica delle maschere



ASPETTANDO PULCINELLA

Seminario sulla maschera
Dimostrazioni e interventi di Claudia Contin, Antonio Fava, Eleonora Fuser, Vanda Monaco, Eugenio Ravo, Donato Sartori
11 febbraio 2010, Laboratori Dms -Teatro


Che sia un seminario particolare lo si capisce subito: si svolge in un teatro (quello dei laboratori Dms), i relatori sono tutti in scena e, il pubblico, nel buio della sala (sebbene siano solo le tre del pomeriggio) assiste in poltrona. Sotto i riflettori non ci sono professori o studiosi affermati, ma cinque artisti che dovranno mostrarci praticamente (ecco la principale novità) come lavorano con la maschera, sia che interpretino Pulcinella o Arlecchino, sia che siano attori o costruttori di maschere.
Silvia Mei (curatrice del seminario) invita al centro della scena Antonio Fava, che da sempre veste i panni di Pulcinella e che della Commedia dell’arte ha fatto materia di studio e di insegnamento. Potremmo aspettarci un elogio della maschera di Pulcinella o il racconto romanzato del proprio rapporto con il personaggio: niente di tutto ciò. “Io non sono il personaggio che interpreto”, dice l’attore, il quale in verità non sembra nutrire troppa stima per uno che, come Pulcinella, non solo è cinico e nullafacente, ma “se potesse votare sarebbe anche un fascista”. Eppure, qualcosa in comune con la maschera napoletana Fava sembra averlo: è l’atteggiamento vagamente dissacratorio con cui, ad esempio, ricorda il mestiere del padre (un Pulcinella che faceva serenate e ravvivava le feste di paese) e con cui, soprattutto, indossa la maschera, sottolineando come per lui non si tratti in alcun modo di gesto rituale. E così, anche se solo per pochi istanti, gustiamo l’esibizione di questo Pulcinella che parla calabrese (perché calabrese è Antonio e lo era anche il padre): una piccola scenetta, una lite fra due coniugi anziani ed esilaranti.
Un omaggio alla memoria di Giulio Bosetti: è questo il segno dell’intervento di Eleonora Fuser (protagonista dello spettacolo delle ore 21), che preferisce non esibirsi ma limitarsi a ricordare come la Commedia dell’arte debba far recuperare il patrimonio dell’attore ‘totale’, quello capace, cioè, di padroneggiare le tecniche vocali e corporee più disparate. E’ solo dal possesso della tecnica che, dice, si può tentare di superarla e di fare un vero teatro di ricerca.
Arriva quindi il momento di Donato Sartori, scultore e figlio del grande costruttore di maschere Amleto: è una lezione universitaria la sua, che si nutre di memorie e di aneddoti, come quello relativo alle grandi difficoltà che, dapprincipio, un grande attore come Marcello Moretti aveva incontrato nell’usare la maschera per il Servitore di due padroni di Streheler.
I Pulcinella di Eugenio Ravo e Vanda Monaco, invece, non potrebbero essere più diversi.
Ravo, con indosso il tradizionale costume bianco dalle lunghe maniche, sfrutta una straordinaria qualità di movimento (di certo acquisita anche alla scuola di mimo di Decroux) per dare vita a un Pulcinella saltellante che affronta, in maniera ironica e dissacratoria, il tema della ‘monnezza’ di Napoli. Già, perché Pulcinella, dice Ravo, è la voce del popolo, una voce contadina e millenaria che, attraverso la maschera, si fa beffe della società.
E’ scarso il legame con la tradizione per Vanda Monaco: ci presenta dapprima un estratto dallo spettacolo Pulcinella 1 e 2 ovvero la colpa è sempre della scarpa. Che questo spettacolo si faccia beffe di Samuel Beckett non viene fuori solo dal titolo (si riferisce ad Aspettando Godot), ma anche dall’atteggiamento del personaggio: Pulcinella è una maschera quasi inquietante che vive in un perenne tempo di attesa, un tempo in cui rievoca scenari di distruzione, come quello dell’11 settembre. Moderno e non convenzionale è il Pulcinella di Pulcinella è un bastardo (spettacolo da cui Vanda presenta il secondo estratto): anche qui le radici popolari del personaggio sfociano in una critica sociale che affronta, con una comicità amara, il tema dello sfruttamento degli immigrati.
Sono trascorse quasi tre ore dall’inizio del seminario, le luci del teatro appesantiscono gli occhi, eppure l’ultimo intervento fa dimenticare a tutti la stanchezza. E’ quello di Claudia Contin, l’unico Arlecchino in mezzo a tanti Pulcinella. La straordinarietà della sua dimostrazione sta nel farci assistere al processo di trasformazione che le permette di diventare Arlecchino, nelle movenze, nella voce, nell’abbigliamento. E’ una ricerca sulla maschera solida e approfondita quella di Claudia, che attinge al Kathakali e all’antropologia. Lo vediamo attraverso esempi concreti: è lo studio del Kathakali, ad esempio, che consente all’attrice di tenere le gambe costantemente piegate come Arlecchino, così come è il lavoro sul ritmo del movimento corporeo che le permette di assumere la tipica andatura della sua maschera. Arriviamo alla cerimonia della vestizione: tutto, dall’abito al trucco ‘sotto maschera’, è funzionale a creare un’immagine credibile e autentica di Arlecchino. Così, grazie a un abito che nasconde le forme femminili e a un trucco che altera il volto, l’esile figura di Claudia sparisce per lasciar spazio ad Arlecchino: per noi farà quello che, secondo la tradizione, facevano i comici dell’arte, è cioè improvviserà. Claudia ci regala, grazie anche al coinvolgimento di due spettatori, una deliziosa gag, in cui le battute a sfondo erotico vengono travolte dall’inarrestabile vivacità di Arlecchino, il quale, anche secondo le parole dell’interprete, rimane comunque un eterno bambino.
Giulia Taddeo

Un Pulcinella pop


ASPETTANDO PULCINELLA

La prima volta di Pulcinella
Ideazione e testi Giuseppe Esposito Migliaccio
Regia Vanda Monaco Westerstahal con Giuseppe Esposito Migliaccio.

Pulcinella 1 e 2 Ovvero la colpa è sempre della scarpa
work in progress di e con Vanda Monaco Westerstahal e Marco Sgrosso
Ideazione e testi Vanda Monaco Westerstahal e Marco Sgrosso
Maschere Stefano Perocco di Meduna


Un “addetto ai lavori”, un operaio, sta seduto in scena, immobile. Siamo di fronte a un mondo Ikea: il nostro presente, il nostro futuro. Questo è quello che si presenta davanti a noi alla Soffitta, mercoledì 10 febbraio: “Pulcinella è una bastardo!” con Wanda Monaco Westersthal e Paolo Nikli, regia di Fabio Acca.

L'ultima cosa che ci aspetteremmo di trovare in un tale luogo, o meglio, un non-luogo, è Pulcinella. La maschera napoletana con in mano uno squalo peluche marchiato Ikea? La perplessità è più che lecita. Non siamo certo in un ambiente da Commedia dell'arte! Siamo spiazzati nel vedere la tradizionale maschera napoletana in un ambiente così moderno e asettico.
Pulcinella ci parla di verità e sincerità, prerogative necessarie all'arte dell'attore. Da quanto sembra siamo alla ricerca di autenticità. Un monologo sulla verità dell'azione scenica ci fa entrare nello spettacolo.
Ma ecco che siamo travolti dal rap di Mrs Elliot in versione pulcinelliana. Siamo di fronte alla “monnezza”! E' questa la contemporaneità? Rap, oscenità e coca?
Pulcinella ci sta dicendo che la verità è il nostro mondo: la società del 2010 che urla, ascolta musica assordante e si scanna.
Che strano questo Pulcinella: si atteggia ora da bulletto di periferia, ora da depresso cronico e, talvolta, anche da leghista come accade nella scena-monologo sull'immigrazione degli africani costretti ai lavori forzati per far crescere mandarini sani e belli.
Parolacce, oscenità e rabbia condiscono le parole di Pulcinella che sembra essere un vero e proprio bastardo; la nostra maschera è un po' conservatrice: non è abituata a vivere con immigrati di colore, a comunicare con i giovani sbandati. Tutto questo si deduce dai vari monologhi di Pulcinella nei quali egli si arrabbia, inveisce contro tutti, non comprendendo la società in cui si è trovato, forse, per caso.
Elenchi di malattie impronunciabili, una cerimonia da martirio degna del “Principe Costante”, una Sarah Kane-Patti Pravo in preda ai deliri di una “Psicosi delle 4 e 48”. Queste le scene più deliranti dello spettacolo. Un collage di opere teatrali note, riviste in chiave ironica, in cui Pulcinella è il protagonista.
Lo spettatore ne esce frastornato, ma anche divertito dall'ironia e dal clima trash che anima il tutto.
La scena scompare nel buio e il pubblico scoppia in un applauso fragoroso. Io, però, non posso ignorare una piccola voce dentro di me che si ripete di continuo: “abbiamo ucciso Pulcinella?”
Marta Franzoso

Pulcinella in work in progress

La prima volta di Pulcinella
Ideazione e testi Giuseppe Esposito Migliaccio
Regia Vanda Monaco Westerstahal con Giuseppe Esposito Migliaccio.

Pulcinella 1 e 2 Ovvero la colpa è sempre della scarpa
work in progress di e con Vanda Monaco Westerstahal e Marco Sgrosso
Ideazione e testi Vanda Monaco Westerstahal e Marco Sgrosso
Maschere Stefano Perocco di Meduna

“La prima volta di Pulcinella” + “Pulcinella 1 e 2. Ovvero la colpa è sempre della scarpa”: il work in progress di e con Giuseppe Esposito Migliaccio, Vanda Monaco Westersthal e Marco Sgrosso, presentato lunedì 8 febbraio alla Soffitta, ha lasciato il pubblico entusiasta. Una sorprendente sperimentazione sul ruolo della maschera nel teatro di oggi, su come è cambiato il ruolo di questo oggetto e su dove porterà una tale ricerca.
Sipario aperto, due sedie, un suono fluttuante nell'aria. Due attori vestiti da Pulcinella entrano in scena accasciandosi su una sedia uno sopra l'altro. L'atmosfera è inquietante. Ma ecco che un terzo attore viene a spezzare l'aria tesa; è un giovane istrione che pronuncia un lungo monologo sulla napoletanità, sui cartelli di autobus che non arrivano mai e sul ruolo dell'attore nella società di oggi: il tutto condito da gesti presi dal background culturale partenopeo. Una sveglia e una litania scandiscono il ritmo scenico: ci stiamo misurando con il tempo della contemporaneità? La litania come ritorno al passato e la sveglia come simbolo della società frenetica di oggi?
L'azione del terzo attore si dissolve e lascia spazio ai due seduti sulla sedia che iniziano a muoversi; sembra una coppia schiavo-padrone che indossa la maschera di Pulcinella: il padrone tiene legato lo schiavo a una corda. L'immagine riecheggia toni beckettiani. I due, infatti, potrebbero essere Pozzo e Lucky o altri personaggi del teatro dell'assurdo.
I due attori si misurano con la pop music, Micheal Jackson, Riccardo III, Amleto, Eduardo De Filippo, costruendo dei monologhi-dialoghi che sembrano un flusso continuo di pensieri non-stop. Le citazioni sono infinite, ma la vera risorsa di questo spettacolo è Beckett: il Pulcinella contemporaneo sembra essere una fusione di Pozzo e Lucky. Lo spettacolo ci pone davanti a due interrogativi: a cosa ci ha portato il nostro secolo? Siamo solo dei resti umani che aspettano qualcosa che non verrà mai?
Ecco che allora la maschera diventa espressione della crisi del nostro tempo. I Pulcinella della Commedia dell'arte non possono più esistere: il Novecento ci regala maschere vuote, condannate a ripetere parole che rimangono un' eco, che vagano nel vuoto, in uno spazio privo di décor.
Lo spettacolo termina lasciando aperte delle possibilità: in fondo non c'è una fine o una risposta definitiva a tutto questo. Esistono domande che gli artisti si continueranno sicuramente a porre. Il senso di una tale ricerca? Lacerare Pulcinella per ritrovarlo!
Marta Franzoso

lunedì 1 marzo 2010

L’eterna divisione, l’eterna conciliazione.

INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO

Mannaggia 'a mort
Principio attivo teatro con Giuseppe Semeraro, Dario Cadei, Raffaele Vasquez
Regia di Giuseppe Semeraro, finalista premio Scenario infanzia 2008


Prendete un piccolo omino d’altri tempi con un paio di spessi occhiali neri in celluloide, immaginate una Morte in tuta optical con stampa di scheletro avvolta da un lungo cappottone nero militare. Immaginate che questo omino sognatore e svagato lotti con la Morte che lo insegue a ritmo di musica ed ecco “Mannaggia a’ mort, storia di un uomo e della sua ombra”, delizioso spettacolo per l’infanzia messo in scena e ideato dalla compagnia leccese Principio Attivo Teatro, finalista al premio scenario per l’Infanzia 2008.

Il nostro omino, come un piccolo prestigiatore, arriva sul palcoscenico con una valigia azzurra: all’interno la sua piccola casa tascabile, con tanto di cucina, pentolini, bagnetto e spugna a forma di paperella e un palloncino bianco legato ad un filo. E il piccolo omino, interpretato da Dario Cadei, che impugna il suo prezioso palloncino, ci ricorda un po’ un pierrot malinconico e stralunato, un po’un personaggio magrittiano. In un susseguirsi di gag da slapstick comedies, in un’atmosfera da film in bianco e nero, i due protagonisti giocano l’eterna lotta dell’uomo contro la morte, con leggerezza ed una vena di onirismo, resa anche da un uso perfetto delle luci che scandisce l’alternarsi del giorno e della notte. I due si rincorrono, si detestano, si minacciano a vicenda con una grande clava di plastica degna degli Antenati di Hanna & Barbera, giocano a nascondino, si lanciano come una patata bollente un candelotto di dinamite. Eppure l’omino, dopo aver improvvisato una lotta sul ring e aver messo k.o il suo nemico, farfugliando qualcosa in una sorta di grammelot confuso, piange lacrime disperate. E così la Morte, interpretata da Giuseppe Semeraro, aiuta l’omino nel tentativo di recuperare il palloncino volato via, dando vita ad uno dei momenti più esilaranti dei cinquanta studiatissimi minuti. Quando sembra che tutto si sia risolto, che i due avversari siano ora amici, ecco che riprende inarrestabile la rincorsa.
Punta di diamante dello spettacolo è il gioco di musica e suoni che segue gesto dopo gesto ogni momento sulla scena: il fruscio del vento, il toc toc sulla porta, la carica data alla sveglia, tutto è riprodotto dalla geniale capacità fonatoria e strumentale di Raffaele Vasquez, che sulla destra del palcoscenico, sin dall’apertura del sipario, accompagna con la sua voce e la sua chitarra i due personaggi.
Maria Claudia Trovato

Il coraggio di oggi e la memoria del passato: intervista a Marta Cuscunà



é BELLO VIVERE LIBERI!

Con Marta Cuscunà
Costruzione degli oggetti di scena: Belinda de Vito
Luci e Audio: Marco Rogante
Vincitore premio Scenario per Ustica 2009
Teatro Itc San Lazzaro di Savena (Bologna)

Marta al telefono mi accoglie con grande entusiasmo. Senza prendere fiato mi presenta Ondina, la protagonista del suo spettacolo. “E’ bello vivere liberi!” è una storia che appartiene al passato ma l’attrice sembra sentirsela ancora addosso, mi parla della piccola donna come se fosse lì davanti ai suoi occhi.
Il tuo lavoro si rifà alla biografia di Ondina Peteani, staffetta Partigiana e deportata nei campi di sterminio. Potresti dirmi qualcosa su di lei?
Ondina è una ragazza di Monfalcone, come me; la sua è una storia di anticonformismo . Fin da piccola impara che la vera famiglia non è certo quella istituzionale ma quella che si decidere di avere; lei è figlia illegittima ma questo non le crea nessun tipo di problema nella relazione col padre e con la madre. Ondina nella sua vita sceglie; se fino ai quattordici anni marcia con i balilla, segue le loro mode, i loro imperativi, nel momento in cui entra per la prima volta in un cantiere operaio decide che la sua vita deve cambiare. Attratta dall’entusiasmo di quella che sarà la sua maestra di vita, Alma Vivona, frequenta la scuola di comunismo. Già a diciassette anni è staffetta partigiana, è giovanissima e coraggiosa. Vive all’età di diciannove anni l’esperienza della deportazione ad Auschwitz, che la segnerà per tutta la vita nei ricordi ma anche nelle scelte future. Dalla prigionia ne uscirà sterile e per reagire a questo diventa ostetrica. Insieme al suo compagno decideranno di adottare un orfano, questo momento sarà per lei un misto di gioia e dolore, perché la riporta ai giorni nei campi di sterminio in cui si veniva scelti per essere uccisi. Ondina così come mi ha raccontato Gianni, suo figlio, adotterà il più bruttino fra i bimbi, il brutto anatroccolo insomma, quello che forse in lager sarebbe stato destinato a morire.
Ha i conosciuto questa donna personalmente?
No. Ho conosciuto la sua biografia leggendo il libro della scrittrice Anna Di Giannantonio (“E bello vivere liberi. Ondina Peteani. Una vita tra lotta partigiana, deportazione ed impegno sociale, FVG, Edizioni IRSML, 2007).
A pelle a cosa ti fa pensare Ondina?
Ad una luce travolgente, ad una scossa, la stessa che mi ha travolto non appena ho conosciuto la sua storia
Qual è il sentimento che ti lega a lei?
L’entusiasmo, la gioia. Siamo entrambe molto giovani, penso a lei come ad una mia coetanea, che ha dato un grande contributo al nostro paese e così come lei, in Friuli durante il fascismo, il 70% dei partigiani avevano 14-15 anni. Questo mi fa pensare al nostro paese, a cosa potremmo fare noi oggi.
Oggi la sua storia può insegnare qualcosa ai giovani?
Potrebbe essere utile per darci una svegliata. Oggi sembra che tutto debba cambiare al di sopra delle nostre teste, delle nostre volontà. Dovremmo guardare un attimo indietro, i giovani di allora si sono fatti delle domande e hanno trovato una loro strada per rispondere.
Qual è il ricordo oggi a Monfalcone di Ondina, della sua lotta al fascismo? C’è una memoria attiva nei confronti della resistenza?

Sta cominciando poco a poco. Alla luce del mio progetto, abbiamo pensato di organizzare una giornata: Forma Libera, in cui i giovani monfalconesi a seconda delle loto attitudini hanno avuto la possibilità di esprimere un loro modo di vedere la resistenza partigiana; quindi si sono attivati nella piazza del paese con istallazioni, letture, cibi tipici del Carso ec. Mi è capitato di proporre a dei teatri non solo il mio spettacolo ma anche altri interventi della manifestazione.
All’interno del tuo lavoro porti in scena burattini e pupazzi; il loro utilizzo ha da una parte una motivazione politica e dall’altra guarda alla sfera emotiva. Potresti spiegare le tue ragioni?

Per quanto riguarda i burattini, all’interno dello spettacolo portiamo in scena la storia di Blechi, infiltrato fascista nell’esercito partigiano; non faccio altro che fare ciò che i partigiani a loro tempo facevano. Raccontare attraverso la drammatizzazione di burattini e attraverso linguaggi popolari. Così i partigiani facevano conoscere alla gente ciò che accadeva.
Per quanto riguarda i pupazzi, mi sono rifatta alla testimonianza della stessa Ondina, lei parlava di “metodo della sopravvivenza” per riuscire a superare la terribile esperienza campo di concentramento; Ondina si immaginava sdoppiata, immaginava che quelle atrocità fossero subite da un suo doppio e non da lei in prima persona. L’idea di sdoppiare Ondina mi ha sollevata da questa problematica. Io non sarei stata credibile nella visione di Ondina in un lager, perché non mi porto addosso nessun segno di privazione, di sofferenza, così ho pensato al pupazzo. Poi ho voluto raffreddare un po’ questa tematica e guardarla non dal lato emotivo del deportato che crea una forte lacerazione,un forte shock, ma dalla parte dei carnefici, una visione molto più fredda insomma.
E tu manovrando Ondina chi eri?
Possono esserci due livelli di lettura, sia il suo doppio, ma anche il suo carnefice.
Mi parli un po’ della tua formazione?
Io ho cominciato dal laboratorio di teatro-ragazzi a Vermiglio, questa esperienza mi ha fatto pensare al teatro come gioco e come rito. Dopo il liceo ho frequentato La Scuola Europea per l’Arte dell’Attore: Prima del Teatro. Lì ho conosciuto un bravissimo artista spagnolo Joan Baixas che si occupa di teatro visuale; ho lavorato con lui a Barcellona, mi ha passato il suo lavoro, ho animato gli stessi pupazzi animati da Joan Mirò. Con la regia di Somiglino ho partecipato allo spettacolo “Indemoniate”, un storia vera di alcune donne che nell ‘800 vengono considerata indemoniate, ma che in realtà sono donne che decidono di ribellarsi con grande violenza al sistema maschilista in cui vivono, donne costrette per questo ad allontanarsi dalla propria città, sottoposte a esperimenti e torture. Poi è tornato nuovamente Baixas con una spettacolo su una donna brasiliana che trasferitasi dalla selva alla città cade nella prostituzione; questo è uno spettacolo che si rinnova ad ogni esibizione perché Joan ogni volta fa dono al suo pubico di tele inedite, questa è la tecnica che lui chiama pittura in diretta.
Joan è l’esempio di un maestro che investe sui giovani?
Si è proprio così. Lui quando mi ha conosciuto mi ha fatto una promessa, mi ha detto che non appena avesse avuto la prima occasione mi avrebbe fatto lavorare con lui. Si è messo in gioco, ha rischiato. Non tutti lo fanno, l’Italia è molto restia ad esempio.
Ilaria Palermo

Anche i burattini resistono!

È BELLO VIVERE LIBERI!



Con Marta Cuscunà
Costruzione degli oggetti: di scena Belinda De Vito
Luci e Audio: Marco Rogante
Vincitore del premio Scenario di Ustica 2009
Teatro Itc San Lazzaro di Savena (Bologna)



Cinque burattini e un pupazzo, un progetto di teatro civile per un attore. Ecco come si presenta il lavoro di Marta Cuscunà “E’bello vivere liberi”, vincitore del premio Scenario Ustica 2009, in scena all’Itc San Lazzaro il 5 e il 6 febbraio. La giovanissima ideatrice e interprete friulana, con già all'attivo numerosi lavori e collaborazioni anche all'estero- la più importante quella con Joan Baixas, direttore del Teatro de la Claca di Barcellona- ci presenta un mix di codici e modalità teatrali. La vicenda, ispirata alla biografia di Ondina Peteani, giovane donna in prima linea nella lotta antifascista, deportata poi ad Auschwitz, diventa lo spunto per raccontare un pezzo di quel periodo di storia italiana, studiato superficialmente nei manuali di storia e incipriato di retorica, che è la Resistenza. Inevitabile, dunque, la scelta del teatro di narrazione, testimonianza e ricordo, originale e fortunata l'idea di introdurre burattini e pupazzi nel discorso teatrale. Il muro con impresso il volto di Mussolini, sullo sfondo dall'inizio dello spettacolo, diventa un teatrino per burattini partigiani dal fazzoletto rosso e mostri fascisti in camicia nera. Il vagone sulla destra si apre e diventa gabbia di metallo per un pupazzo dagli occhi sgranati, Ondina stessa, che, guidata dalle mani dell'abile attrice, incartate da un postmoderno sacco per la spazzatura, vive l'incubo di Auschwitz.

Perché vedere questo spettacolo? Per farsi trascinare dalle musiche slovene e dalle marcette partigiane, per farsi coinvolgere dalla disinvoltura della giovane attrice che sembra esser nata sul palcoscenico, perchè- colpiscono nel segno le parole della giuria per il premio Scenario Ustica 2009 - E' bello vivere liberi restituisce il sapore di una resistenza vissuta al di fuori di ogni celebrazione o irrigidimento retorico. Perché, anche per noi ormai lontani da quell'epoca in cui tutto sembrava possibile, resistenza diventi sinonimo di libertà.
Maria Claudia Trovato

Resistenza, resistenza, resistenza!

INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO

E’ bello vivere liberi!
Di e con Marta Cuscunà
Costruzione degli oggetti di scena Belinda De Vito
luci e audio Marco Rogante
disegno luci Claudio Parrino
Vincitore del Premio Scenario per Ustica 2009
Teatro Itc, San Lazzaro di Savena, Bologna



81672: cinque grossi numeri scritti con delle pennellate di vernice bianca su un vagone destinato al trasporto del bestiame.

E’ facile capire a cosa alluda quest’oggetto presente in scena sin dall’apertura del sipario, è quasi ovvio pensare ai campi di concentramento, ad Auschwitz.
Ma Marta Cuscunà, autrice e interprete dello spettacolo, fa dimenticare il presagio sinistro di quel vagone.
Eccola comparire in scena e iniziare a far rivivere la storia della giovane staffetta partigiana Ondina Peteani.
L’attrice ricorre a una narrazione brillante e ironica, sia quando parla in terza persona, sia quando dà corpo e voce non solo a Ondina ma anche, con straordinaria abilità mimica e vocale, a coloro che hanno segnato la vita della ragazza. I personaggi emergono attraverso brevi episodi, piccoli cammei in cui sono condensate le caratteristiche salienti di ognuno. Le luci, il divertente commento musicale, l’utilizzo degli oggetti scenici e, soprattutto, la capacità interpretativa dell’attrice ci permettono di visualizzare concretamente Ondina e i suoi compagni, quasi fossero le sequenze di un film (o forse di un cartone animato).
Sembra di vederla crescere e maturare, questa partigiana: dai primi contatti con i gruppi clandestini, alla promozione al ruolo di staffetta (che le permette di indossare i pantaloni, simbolo di emancipazione femminile), fino alla concreta esperienza della prigione e della guerra.
A questo punto la narrazione perde in vivacità ma si fa emotivamente più intensa, tanto che spesso, forse troppo spesso, la voce dell’attrice è sul punto di rompersi in pianto.
Fortunatamente, però, lo spettacolo riesce di nuovo a stupire; proprio quando Ondina è incaricata di tendere un agguato al traditore Blechi, Marta sparisce dietro a un pannello che si trasforma in un piccolo teatro per cinque burattini che sembrano usciti dalla matita di Tim Burton: saranno loro, irresistibili e coloratissimi, a compiere con successo la pericolosa missione, la quale ovviamente si trasforma in una farsa dialettale con tanto di bastonate finale. E’ una soluzione che attinge alla tradizione del racconto orale e che sottrae l’episodio a ogni forma di retorica e di lungaggine narrativa; la vicenda inscenata tuttavia culmina con un omicidio, come dimostra la mano insanguinata di Marta che, spuntando da dietro il pannello, chiude l’azione.
La storia di Ondina sta volgendo al termine. La ragazza viene deportata ad Auschiwitz e quel vagone del treno, sin dall’inizio presente in scena, balza di nuovo davanti agli occhi di tutti:quello che dapprima era presagio diventa ora una drammatica certezza. Ed ecco una nuova virata: Marta apre il vagone e inizia a manovrare un inquietante pupazzo, al quale strapperà i capelli e il vestito, cosicché il pubblico si trovi davanti agli occhi l’immagine scheletrica della ragazza devastata dal campo di concentramento. E’ un momento di rara potenza visiva e talmente compiuto in sé che le battute dall’attrice (non molte in verità) appaiono piuttosto superflue: basta guardare la fragilità di quell’oggetto inanimato, osservare l’espressione attonita di quegli occhi dipinti (grandi e luminosi, quasi a ricordare quelli di Marta-Ondina) o ascoltare il rumore di un osso che si spezza sotto le mani Marta per poter rabbrividire, per non poter sopportare altro.
Sono poche anche le parole che seguono questa sequenza: come nella migliore tradizione del racconto orale, alle ultime frasi, le uniche apertamente retoriche, sembra essere affidata la morale della vicenda; Marta pronuncia con entusiasmo e ardore le parole di Ondina, sopravvissuta ad Auschwitz anche grazie alla fede nella scelta di combattere contro il fascismo.
Ma impercettibilmente il discorso assume una portata più ampia perché resistere, dice Ondina, significa scegliere da che parte stare: in questo senso quello di “Resistenza, resistenza, resistenza!” sembra l’appello accorato che Marta rivolge al suo tempo e, forse, alla sua generazione.

Giulia Taddeo

I Fantasmi di Marta


INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO

É BELLO VIVERE LIBERI!
Con Marta Cuscunà
Costruzione degli oggetti di scena: Belinda De Vito
Luci e Audio: Marco Rogante
Vincitore premio Scenario per Ustica 2009
Teatro Itc San Lazzaro di Savena (Bologna)

Ingenuità e coraggio: queste le due note di Marta Cuscunà. E chi meglio di questa ragazza poco più che ventenne avrebbe potuto renderci la storia di Ondina Peteani, staffetta partigiana della resistenza?
“E’ bello vivere liberi” è approdato all’ITC Teatro di San Lazzaro venerdì 5 e sabato 6 febbraio, in occasione della rassegna Interscenario.
Marta col suo spettacolo, vincitore del Premio Scenario Ustica 2009, sembra portare in scena se stessa, la sua storia e questo, ahimè, si rivela a volte una temibile arma a doppio taglio
La nostra MartOndina si offre al pubblico con una totale generosità che non le permette in certe circostanze di fare alcuno scarto fra ciò che si può e ciò che non si può; una commozione fin troppo tangibile, una voce tremula o delle lacrimucce che scendono dai volti di donne pupazzo attenuano la tensione della scena, che senza un dire o un fare avrebbe trovato già un denso compimento.
Un fantasma sulla scena è spettatore primo di Marta, lui è Mussolini, i suoi occhi sembrano spiare entusiasmi eterni che muoiono e si rinnovano nelle mente di nuove generazioni. Ma questo Mussolini lo sa bene.
Marta con le sue parole leggere ci fa dono di semplicità e gaiezza, prende forza dalla sua compagna Ondina, non si allontana da lei. Ondina è sempre lì, così come la madre, il padre, la fantastica maestra di vita Alma Vivona che più volte appare sulla scena con i suoi precetti e la scuola di comunismo.
Marta è tutti loro, ne incarna la forza per la reazione, la volontà alla lotta; fantasmi anche loro di una storia che è esistita.
La scena si fa contenitore di memorie; viaggiatori nella mente di Ondina ritroviamo segni indelebili di immagini non dimenticate, frammenti di luoghi che si imprimono silenti.
A volta la nostra attrice inciampa in piccole trappole che sembra abbia costruito da sé, piccoli atti per ingraziarsi il pubblico trovano risposta in una risata immediata ma non volano alto.
La musica Marta avrebbe dovuto tenerla più sottocontrollo, le melodie che sfilano rischiano di rivelarsi divertenti compagne traditrici che fra le note di cajkovskij portano le menti verso immaginari altri e non sì è più lì.
Marta accende tutto di entusiasmo. Con le sue pedalate immaginarie, ci riporta fra le strade di montagna del Carso; con divertenti burattini, che la stessa attrice anima con vivacità e grande attitudine vocale, svela tradimenti e tutto il marcio del regime fascista.
I doppi di Ondina si moltiplicano; non più solo Marta, ma anche un suo doppio in un pupazzo, immagine che racconta l’esperienza della deportazione. Sebbene l’intuizione di voler, tramite questo strumento, evitare emotività fin troppo accese, l’attrice sembra arrivarci fino ad un certo punto, la scena viene tradita al suo interno dalla stessa manovratrice, Marta ama dare più del dovuto, e così il suo doppio parla e piange , ma la sua forza è nell’immagine: una donna-larva con ossa rumorose.
Marta ai miei occhi è portatrice di un grande senso di umanità che si scorge dentro e fuori la scena.
Marta ringrazia il suo pubblico come una bambina che tenta imbarazzata di volersi tenere il lembo di un grembiule: pugni chiusi e braccia serratissime al corpo.
Ilaria Palermo

Una raccontastorie contemporanea



INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO

Con Marta Cuscunà
Costruzione degli oggetti di scena: Belinda De Vito
Luci e Audio: Marco Rogante
Vincitore del premio Ustica 2009
Teatro Itc San Lazzaro di Savena (Bologna)


<‘Sta guagliuncella è brava assaje!> e via dicendo.

Non c’è posto in Italia dove non si odano complimenti uscendo di sala dopo aver ascoltato la divertente e toccante storiella della prima staffetta partigiana Ondina Peteani.
Storiella? No, non vuole essere riduttivo, anzi, ma una strategia linguistica che cerca di ancorarsi a diminutivi infantili per esprimere quel sentimento tiepido e schietto che si prova dopo aver assistito all’esaltante racconto di Marta Cuscunà (venerdì 6 e sabato 7 febbraio all’ ITC di San Lazzaro).
Un’attrice, cinque burattini, una valigia lager, un mitragliatore di latte e due lacrime di led, questa la cassetta degli attrezzi della fanciulla prodigio. E quel pupazzo, identificativo della Ondina prigioniera a Ravensbruck, degno della grafica di Tim Burton: queste le parole di Marta Cuscunà.
E così, con pochi mezzi a sua disposizione questa ragazza sa commuoverci e entusiasmarci grazie alla sua capacità di rielaborare una storia vera, testimonianza storica di un passato tanto dibattuto, e riviverla personalmente al contempo nella spontaneità dei sentimenti umani, dimostrando come certe emozioni, certe sensazioni, certe resistenze non si possono confinare nel tempo e nello spazio, ma restano universali, comuni, globali. Perché “è bello vivere liberi” oggi come ieri come domani, e mentre noi dovremo stare attenti a non dimenticarlo, lei delicatamente ce lo sussurra in un orecchio.
Marta parla del fascismo, della resistenza, temi delicati e regolarmente preda del pietismo, della commemorazione e degli irrigidimenti propri della retorica, ma mentre si fa da sé, scrivendosi interpretandosi inventandosi e costruendosi senza mai cedere nulla al caso, lo fa con una tale genuinità da riuscire a restituire quel felice connubio di vita manifatturiera (intesa come minuziosa costruzione del vivere quotidiano) e artificio artigianalmente vero che, davanti alle sue trovate, non possiamo che rimanere colpiti e commossi.
Una narrazione geniale, popolare e atipica, fresca, lontana dai dettami e dagli stereotipi di tanto teatro d’immagine contemporaneo ma capace di restituirci quell’ istantanea vitale e pulsante della vita che palpita, e scalpita, in ognuno di noi. Anche se spesso, non riusciamo, e forse non vogliamo, prenderne coscienza.
Futura Tittaferrante

Un paese di stelle e sorrisi



Con Victorine Mputu Liwoza e Judith Maleko Wambongo
Compagnia Mosika
Teatro Testoni di Casalecchio di Reno, 16 febbraio 2010
Vincitore del Premio Scenario Infanzia 2009

“Un paese di stelle e sorrisi” è la storia di un viaggio, è una storia di distacco e lontananza. Dal paese dove il cielo è pieno di stelle e la gente ci sorride nella calda e lontana Africa, all’Europa, lampada magica che se hai fame ti dà da mangiare, se hai sete di dà da bere, ecco il viaggio di una madre (Victorine Mputu Liwoza) che lascia la figlia (Judith Maleko Wambongo) per trovare lavoro in Italia, per garantire a sé stessa e alla sua piccola, mwana na ngai, un futuro migliore. Sul palco immagini poetiche e toccanti, accompagnate da musiche e ritmi africani a tratti coinvolgenti, a tratti commoventi: le due donne si scambiano lettere, aereoplanini di carta che oltrepassano il muro del tempo e dello spazio. La piccola Judith racconta alla madre lontana dell’ultima festa di matrimonio nel loro villaggio, la madre della sua nuova quotidianità, della gioia nel ritrovare una connazionale o nell’imparare la nuova lingua. Tutto avviene con il sapiente intreccio di tre lingue, l’italiano del nuovo paese della madre, il francese ufficiale della repubblica del Congo, e il lingala, dialetto delle due protagoniste, lingua della familiarità e dell’affetto. I toni caldi dei costumi di Judith e Victorine sullo sfondo scuro del palco che riflette le ombre delle protagoniste, e l’immediato uso delle sonorità del lingala, immettono lo spettatore in un Africa calda e festosa. Poi arriva la guerra. Le lettere di Judith, in continua fuga e in preda alla costante paura, si fanno cariche di rabbia per le promesse non mantenute dalla madre. Scoppiano i palloncini sul palco, diventano suoni di guerra. Judith straccia le lettere della madre. Ma la notte non sarà infinita. E’ giunto il momento per Judith di raggiungere la madre, è arrivato il momento di gridare a squarciagola un’interminabile sequela di voglio. Voglio un permesso di soggiorno, voglio ridere a crepapelle, voglio piangere di gioia, voglio diventare un’astronauta, voglio vivere, voglio rinascere… Pochi istanti di incredibile pathos nell’abbraccio finale tra madre e figlia. Poi ecco dirompente la musica congolese prendere il sopravvento su tutto e le due giovani attrici lanciarsi in una sorprendente danza di libertà e di speranza.
Dopo lo spettacolo, che ha visto un esaltato pubblico di bambini del secondo ciclo delle elementari e delle medie inondare le due attrici di domande e curiosità, ho avuto l’opportunità di scambiare due chiacchiere con Victorine e Judith. Victorine, 32 anni, da ventisei in Italia, si è formata presso l’Itc San Lazzaro, dove collabora a molti progetti e a molti lavori, primi fra tutti gli spettacoli messi in scena dalla Compagnia dei Rifugiati. Judith, 19 anni, da nove in Italia, ha iniziato a recitare per gioco, frequentando alcuni laboratori de La Baracca. A parlare, soprattutto Victorine, impetuosa e solare. Judith, più timida l’appoggia.
Quella che presentate al vostro pubblico è una storia molto intensa, pur nella semplicità del suo intreccio. Com’è nata questa storia? Quanto c’è di autobiografico?
Quasi tutti, dopo aver assistito al nostro spettacolo, ci chiedono se si tratti o meno di una storia vera. La chiave è giù all’interno dello spettacolo nel momento in cui diciamo “io sono tutte le mamme che partono e non sanno quando rivedranno i loro figli”, “io sono tutte quelle ragazzine che all’improvviso rimangono sole”. La storia vuole essere universale, vuole rappresentare la lontananza e l’attesa che separano madri e figli in tutti i luoghi del mondo e in tutti i contesti. Non importa che madre e figlia siano rumene, albanesi, americane o africane. Comunque, sì, è anche la nostra storia. Io sono arrivata in Italia a sei anni, mia madre era qui già da due, Judith è arrivata a dieci anni e la madre viveva in questo paese da cinque. L’idea di creare questo spettacolo è nata all’improvviso quando abbiamo letto il bando del premio Scenario, sentivo che questi due personaggi che avevo in mente potevano essere efficaci, sentivo che poteva nascere qualcosa di veramente bello.
Voi avete ideato il testo, ne siete anche registe e interpreti. Come avete vissuto il fatto di aver concentrato in voi i tre momenti della drammaturgia, della regia e della recitazione? Non avete sentito l’esigenza di un aiuto esterno?
La prima parte del lavoro l’abbiamo svolta singolarmente, molto spesso in solitudine. Abbiamo lavorato molto sull’improvvisazione. Insieme poi rielaboravamo quanto fatto. Ogni volta che facevamo un passo avanti nella costruzione dello spettacolo lo mostravamo ai nostri amici, in particolare ai componenti della Compagnia dell’Argine, che ci hanno dato tantissimi consigli e suggerimenti. Ma volevamo che il lavoro fosse principalmente nostro. Grande aiuto ci è arrivato anche da Cristina Valenti, che si occupa in prima linea del premio Scenario. L’apporto di Scenario, da questo punto di vista, è molto importante perché offre la possibilità alle Compagnie di essere seguite da un tutor.
L’idea di lavorare su tre piani linguistici, quello del francese, del congolese e dell’italiano è molto originale e molto espressiva. Quale senso conferite a questa scelta? Cosa volete trasmettere al pubblico attraverso questo multilinguismo?
L’uso del lingala, il dialetto congolese, ci è servito già dalle prime scene ad immettere lo spettatore nell’atmosfera del contesto africano su cui si apre lo spettacolo. Abbiamo riservato il francese, lingua ufficiale della Repubblica democratica del Congo, soprattutto ai momenti legati alla scuola. Comunque, al di là dell’importanza delle tre lingue per connotare geograficamente lo spettacolo che è un’altalena tra Africa e Italia, utilizzare le tre lingue è stato anche un modo per lavorare sul suono e sulle potenzialità che una lingua straniera può offrire. In questo senso mi sono molto ispirata al lavoro che svolgo con la Compagnia dei Rifugiati, dove scaraventiamo sul palcoscenico persone che sono appena arrivate in Italia e conoscono non più di tre parole. Le sonorità di lingue sconosciute che si mescolano tra loro possono dar vita a effetti di musicalità sorprendenti.
Da quanto tempo vi conoscete? Da dove è nata l’idea di creare una compagnia? Cosa significa mosika?
Da sempre. Siamo cugine. L’idea della compagnia, come ho detto, è nata principalmente leggendo il bando del Premio Scenario. Sentivo di avere una buona idea e ho pensato subito a mia cugina Judith, anche lei attrice e amante del teatro. La parola Mosika racchiude tutto il significato del nostro spettacolo, in lingala significa lontananza.
Un paese di stelle e sorrisi è il vostro primo lavoro. Avete in cantiere altri progetti?
Siamo in tournée fino a giugno e impegnate in altri progetti con altre compagnie e altri gruppi. Ma ci ripromettiamo sicuramente di creare di nuovo qualcosa insieme, ma non prima del prossimo settembre.
Maria Claudia Trovato

Pornobboy, Babilonia Teatri


INTERSCENARIO: LE GENERAZIONI DEL NUOVO

Pornobboy - Babilonia Teatri
Di Enrico Castellani, Valeria Raimondi

Con Ilaria delle Donne

Vincitore del Premio Scenario 2007


Esilarante, impudico e irriverente,“Pornobboy” di Babilonia Teatri, in scena all’ITC San Lazzaro, il 22 e il 23 gennaio per il ciclo Interscenario, le generazioni del nuovo. Tre mitragliatrici caricate a parole (Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Ilaria Dalle Donne, già vincitori del premio Scenario 2007 con “Made in Italy”), su un palcoscenico che mostra il dietro della macchina teatrale e il suo groviglio di attrezzi e fili elettrici, inanellano senza tregua, in un unisono che stordisce e ipnotizza lo spettatore, una cantilena di fatti, eventi, retroscena dell’attualità italiana e non solo. L’assordante rap quasi metallico spazia da Meredith, al delitto Cogne, da Eluana al gossip politico, fino alla critica dell’iperabusata giornata del malato, dell’immigrato, della tolleranza di quelli contro cui farei volentieri mattanza... Al popolo di internet ricorderà quella serie di canzoni sugli stereotipi delle città italiane, che con sottofondo di musica da discoteca, gridano di volta in volta Bologna, Roma, Catania, Napoli is burning. Dopo un’ironica dedica alla stampa italiana, che straborda di gadget, inserti di filatelia, dispense di lingue e trousse di rossetti, una critica spietata al voyeurismo quotidiano, al bombardamento mediatico, al desiderio di tutti di parlare di tutto, magari comodamente seduti nei salotti della seconda serata, di conoscere la mappa dei tatuaggi, il rebus dei succhiotti dell’ultima vittima di stupro, di ascoltare dal vivo la voce dei terroristi e di vedere sullo schermo come un italiano muore. I tre indossano un po’ della banalità di cui parlano, tre t-shirt informali e commerciali, da souvenir shop metropolitano. Alle loro spalle, durante la sfiancante sequenza di parole, quattordici locandine del loro spettacolo, da loro stessi attaccate ad una parete metallica all’accendersi delle luci. I linguaggi si mescolano, si fanno forti e pungenti: alle storie di ordinaria follia quotidiana di un’Italia di inizio millennio, si alternano, provocatorie, parole da gergo metropolitano e ottave di Ariosto,miste a proverbi popolari e inserti rap di Jovanotti. D’un tratto i tre si interrompono. Il pubblico prende fiato insieme agli attori, che rimangono impassibili e imperturbabili, sulle note di una ninna nanna. Da un tubo collocato in alto, passato praticamente inosservato durante i quaranta intensissimi minuti della rappresentazione, esplode una cascata di schiuma ad inondare il palcoscenico: gli attori e con loro l’Italia dei benpensanti e dei curiosi affogano in quel mare di parole superflue e desideri morbosi.
Maria Claudia Trovato