lunedì 26 aprile 2010
La giostra della menzogna
La menzogna di Pippo Delbono
Ingresso del pubblico. Il pubblico si siede e aspetta. Tutto il pubblico è seduto e aspetta, le luci preannunciano l’inizio dello spettacolo, ultimi bisbigli, il pubblico aspetta .
Silenzio. Non accade nulla. I minuti scorrono e trasformano un semplice passaggio, ingresso pubblico-inizio spettacolo, in una condizione di imbarazzante angoscia in cui al silenzio della sala si sostituisce la tosse, unica reazione involontaria che supplisce la mancata abitudine di guardare.
Così inizia “La menzogna” di Pippo Delbono, in scena all’ Arena del Sole di Bologna il 21 e 22 aprile.
Scale, impalcature, ringhiere, armadietti di ferro restituiscono l’immagine di una fabbrica: l’acciaieria di Torino ThyssenKrupp, dove nel dicembre 2007 un incendio provocava la morte di sette operai.
Delbono, protagonista assoluto della scena, entra con totale disinvoltura e prende posto in platea. Non curante del disagio invisibile che ha pervaso la sala, trova in questo ritardo il pretesto per osannare e dissacrare la bella liceità dell’Italia: “in Italia tutto è concesso tranne droghe e culattoni”.
Partendo dal fenomeno delle morti bianche, il regista demiurgo vuole mettere a nudo le menzogne dei nostri tempi; ci porta all’interno di un viaggio a ritroso, in una regressione che dal tempo attuale approda all’infanzia; dal sociale arriva all’individuo, a se stesso.
Ogni condizione umana è generatrice di menzogna: dagli operai che entrano silenti nei loro spogliatoi “per costruire un futuro migliore con ThyssenKroup”, alle bestie sadomaso che trasformano la fabbrica in un bordello, la menzogna è nei loro corpi che si esibiscono senza vergogna che Delbono, con animo perverso, fotografa, segue e ne illumina le parti con tanto di lampadine tascabili.
La menzogna di prelati e cardinali che con ieraticità assolvono i peccati delle loro penitenti chiudendole in armadietti-bare è denudata dalla loro urla che rompono quella compostezza; latrati feroci rivelano multiple nature in loro, le loro ulcere emotive debordano dalle bocche; penitenza e rabbia procedono sullo stesso binario.
La morte giace sul proscenio, è un corpo che non ha più nulla da chiedere, come dilaniato da frecce di un cavaliere medievale che sferza colpi e atterra la dignità del mondo, è fame, peste, aids, guerra, morti bianche.
La nudità dei corpi in scena non veicola sempre la stessa condizione dell’essere umano; Gianluca è portatore di una serpe e di un fiore: la sua serpe lo esibisce nudo con lunghe collane di perle e movenze seduttive, il suo fiore lo rende libero di scorazzare nudo senza oscenità.
Lo spettacolo procede non per dialoghi ma per visioni che si trasformano una dentro l’altra, l’incendio della fabbrica arriva attraverso immagini frenetiche di corpi contorti che danzano la loro morte su “Le Sacre du printemps” di Stravinskij. Il regista segna i tempi della scena e si trasforma in essi: presentatore cinico, infame guardone, bestia feroce lui come tutti.
Attraverso un percorso inverso, il regista ricostruisce un frammento della sua infanzia, si denuda dentro e fuori; la sua prima menzogna fa capo lì, al suo corpo di bambino che sente e nasconde pulsioni omosessuali, con una mano che cerca la carne del suo corpo e un pugno chiuso che vuole nascondere insieme al pollice anche se stesso.
“Rinnega il tuo nome” implora fino all’esasperazione Giulietta al suo Romeo; con pochi frammenti estrapolati da Shakespeare anche il regista implora a prendersi la responsabilità della propria identità, oltre un nome che contraddistingue soltanto per genere, razza, cognome, sesso, portatore di falsificazione e diffidenza.
Gli eventi della vita sembrano succedersi, attraversare una ciclicità temporale e allo scadere dei secoli riproporsi, da Shekespeare a Dante, alle sue invettive contro l’Italia a Delbono al nostro tempo, uguale a ieri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,nave sanza nocchiere in gran tempesta non donna di province, ma bordello!”
Ilaria Bella Palermo
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