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Scene dalla Soffitta presenta la terza edizione del laboratorio di scrittura critica incentrato sugli spettacoli della stagione 2010 del Centro di promozione teatrale La Soffitta e anche su altri appuntamenti.
Questo blog, realizzato da studenti della Laurea Magistrale in Discipline dello Spettacolo dal vivo dell'Università di Bologna con l'aiuto e la supervisione di Massimo Marino,
contiene recensioni, approfondimenti, cronache teatrali e tanto altro...

Vuole essere una finestra sul mondo del teatro: perciò chiede a voi lettori di partecipare con commenti,
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Buona lettura!

DIRETTORE Massimo Marino

SEGRETERIA ORGANIZZATIVA Maria Pina Sestili

WEB Elena Cirioni

SCRIVONO: Elena Cirioni, Marta Franzoso, Lilian Keniger, Elina Nanna, Ilaria Palermo, Maria Pina Sestili, Giulia Taddeo, Laura Tarroni, Futura Tittafferante, Maria Claudia Trovato.

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mercoledì 28 aprile 2010

Quando a mio padre si fermò il cuore non ho provato dolore




La menzogna di Pippo Delbono


“La menzogna” non è solo il titolo dell’ultimo spettacolo di Pippo Delbono. Non è neanche il suo soggetto, dato che lo spunto tematico di partenza è un fatto di attualità, vale a dire l’incendio in cui, nella notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007, morirono sette operai della Thyssen Krupp. La menzogna è un personaggio dal volto multiforme: ognuno di noi può incarnarla, nel momento in cui ci illudiamo di soffrire per morti che non conosciamo e per i quali proviamo solo pietà; ma, più di tutto, la menzogna vive nei festini a luci rosse dei padroni che, tra frustini, sigarette e corpetti in lattice, sono i motori di quel sistema economico che da un lato brucia vivi gli operai della Thyssen, e, dall’altro, celebra le sue conquiste in video pubblicitari (proprio quelli della Thyssen) in cui ci si chiede “What’s the future?” con la certezza di essere i protagonisti trionfanti di quel futuro su cui si finge di interrogarsi.
Lo spettacolo si pone di fronte a tali questioni come un urlo incontenibile proprio perché, ci dice Delbono, è ora di smetterla di “darsi un contegno”, è ora di spogliarsi dalle ipocrisie del qualunquismo e del politicamente corretto. Urlare contro, dunque: è Pippo, demiurgo dell’azione, che dalla platea ci fa rabbrividire quando grida nel microfono le parole “bruciati vivi”, e che in scena, indossati i panni di un padrino con tanto di brillantina sui capelli, mette il microfono davanti alla bocca dei propri compari in vesti sadomaso, i quali, però, non possono che emettere versi animali.
Il carattere diffuso e penetrante della menzogna viene fuori anche dalla struttura complessiva dell’azione scenica: due grosse sequenze che ci appaiono come le due facce di una stessa medaglia, e che, anche da un punto di vista formale, risultano essere del tutto agli antipodi. Dapprima, in silenzio e con la sola illuminazione di una luce al neon, un gruppo di operai, alla spicciolata, raggiunge il proprio armadietto, indossa la tuta da lavoro, e, lentamente, sparisce in una porta scura sul fondo, che li inghiotte come una voragine. E’ una mattina qualunque, il buio è quello di sempre, forse nemmeno i pensieri degli operai (che non parlano fra loro) sono diversi dal solito. A questo primo momento fa da contrappunto il già citato festino sadomaso, caotico, urlato, eccessivo nelle danze assurde e negli spogliarelli dei partecipanti.
Basta, ci vuole una pausa. E’ il momento dei non-attori della compagnia, delle star: ecco l’ex barbone Nelson che si finge un esperto d’arte e, soprattutto, è il momento della sfilata di Bobò (50 anni passati in manicomio, sordomuto e analfabeta) che saluta e lancia baci al pubblico. Ma si tratta di un preludio: questi corpi, quello di Nelson come quello di Bobò, con una storia e una verità che vanno oltre il momento rappresentativo, ci conducono, distraendoci, all’ecatombe finale. Perché di un’ecatombe da tragedia si tratta: se all’inizio, infatti, si denunciava la pietà (elemento strutturale del meccanismo tragico) come sentimento consolatorio e fallace, in questo finale essa assume un’intensità tale da tradursi in sgomento. Non si può provare altro di fronte alla sfilata degli attori che, come tante pietà (scultoree stavolta) in movimento, portano in braccio i corpi esanimi dei propri compagni. Li adagiano al suolo: anche questi corpi portano un’autenticità che non possiamo non vedere e che abbaglia soprattutto quando essi sono completamente nudi; la stessa nudità di Delbono solo in proscenio che, poco dopo, fa l’atto di spogliarsi “della menzogna che si porta dentro”. Ma soprattutto è la nudità di Bobò: non ha bisogno di essere nudo per trafiggerci come una lama quando, con malinconia incosciente, apre uno alla volta gli armadietti degli operai, ormai vuoti.
Giulia Taddeo

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